Downton Abbey ci ha folgorati, come un fulmine. Letteralmente. Eravamo assopiti, mezzi morti di inedia, completamente dimentichi del piacere, ripetitivo e sempre nuovo insieme, di una serie tv di qualità. La nostra mente, bisognosa di ricercatezza come di acqua fresca, era annebbiata, arida. Paesaggi di fiction italiote ci circondavano e d estirpavano quello che era rimasto della nostra vita “televisiva”, prelevando le ultime goccioline di vapore. Completamente avvinti da commissari e affini di ogni specie (“lu sicilianu”Montalbano, Manara, l'ispettore molto anni 70' da b-serie Coliandro, il commissario Viviani, il nuovo Nardone, lo sbirro sposato, i Carabinieri, "le Squadre", i “Distretti”, i generali e i giudici come eterno ricordo di un “repetita iuvant” che ha finito per offuscare l'ultimo neurone funzionante etc. etc.), completamente atterriti da famiglie allargate e non allargate, con personaggi presenti un giorno, missing il seguente, ritrovati o persi per sempre (Un medico in famiglia, I Cesaroni, Tutti pazzi per amore, Caterina e le sue figlie), completamente disgustati da operazioni di dubbia qualità con ritorno politico impresso come un marchio (il Barbarossa, le attricette piazzate per fare piacere a qualcuno, in qualche miniserie di due puntate come contentino/ricatto), senza dimenticare la completa disintegrazione di ogni atomo di divertimento con le fiction made in TeleVatican sui preti, i papi, i santi e le sante di ogni tempo, magari sconosciuti al mondo comune (ricordo di aver letto di una fiction su Suor Pascalina e credo occorra una laurea in teologia con specialistica solo per capire chi sia). Insomma, evitando di citare l’abominevole modus “recitandi” di presunte star dell’Italia della rotondità , meglio se pettorale o posteriore, a partire da Sabrina “so’ romana e me ne vanto” fino a giungere alla regina incontrastata delle fiction di cattivo gusto, Manuela “strate-ggg-ismo sentimentale”, la nostra situazione “televisiva” era seria, o meglio senza possibilità di via d’uscita. Poi un bel giorno ti accorgi che c’è tutto un mondo intorno, che la serialità non è solo la scrittura da prima elementare della tv italiana in prime time, né la soap tedesca che ha tanto successo tra gli over-70, né la Julie Lescaut francese di Tf1, né la sit-com “amerigana” tanto divertente, né la pur pregevole “sesso-serialità” alla HBO.
Downton Abbey nasce nel 2010. Il creatore è Julian Fellowes, un nome non nuovo nel circuito televisivo britannico (le numerose collaborazioni con la BBC) e soprattutto Oscar 2002 alla sceneggiatura originale per il memorabile “Gosford Park” di Robert Altman, uno splendido spaccato sociale che in poco più di due ore riusciva, meglio di qualunque documentario storico-culturale, a far rivivere l’atmosfera di una casa aristocratica anni 30’ nell’Inghilterra dei cambiamenti, aggiungendo quel tocco un po’ mistery dell’Altman de “La fortuna di Cookie” e giù di lì e quella coralità perfetta che è stata il marchio di fabbrica del regista americano. Per certi versi, Downton Abbey è la degna erede di “Gosford Park”. Ma non basta. E Julian Fellowes non si è limitato a fare un volgare “copia e incolla”. Ha preferito edulcorare del tutto il carattere meno signorile e più ruspante di Altman, che fungeva quasi da controcanto-critico americano all’idealizzazione e allo splendore delle case di campagna all’inglese, e ha messo da parte la proverbiale e profonda carica corrosiva dell’autore di “Mash”. Cosa resta? In fin dei conti, Fellowes non dimentica, anzi ingigantisce, grazie alla quantità di tempo da occupare (gli episodi hanno una durata effettiva che sfiora e, in certi casi, supera l’ora), la coralità, collegandosi anche alle grandi produzioni british che sono entrate nella storia della televisione anglosassone, come “Brideshead Revisited”. In più, pur evitando di sostenere una critica, documenta con grande cura il cambiamento netto della società aristocratica (e non) inglese dai primi anni 10’ (il pilot comincia con il naufragio del Titanic del 1912) fino agli anni ’20 (la seconda serie termina dopo la prima guerra mondiale, che attraversa tutta la stagione, con lo speciale di Natale del 1919). Questa forma di cambiamento, che investe l’intera struttura sociale, la politica, riverbera nella sfera famigliare di “Downton Abbey”, la splendida tenuta del Conte di Grantham. Partendo da questo assunto-base, nascono una miriade di trame e sotto-trame, mai del tutto svicolate dal canovaccio centrale. L’abilità è quella di legare, senza ambiguità né autoreferenzialità, una miriade di storie diverse che si evolvono l’una con l’altra, come in una soap d’altri tempi, soggette soltanto alla variabile ultima, il cambiamento impellente, che sia della società, della Storia, dell’individualità o dei costumi. Assistiamo così ad un’evoluzione dei personaggi complessa, divisa tra conservazione delle prerogative e capacità di aprirsi al nuovo. Le tre figlie del conte, Mary, Edith e Sybil fanno i conti, in pochi anni, con un mondo che non è più lo stesso e, in modi diversi ma speculari, affermano la propria personalità emotiva, discostandosi di molto dagli antichi precetti di famiglia. L’erede della tenuta, l’avvocato Matthew, dapprima fortemente osteggiato per la sua estrazione borghese, viene accolto e amato nel corso del trascorrere del tempo. Lo stesso personaggio di Violet Crowley, attempata contessa matriarcale, si inserisce progressivamente nel cambiamento e muta, senza mai perderla, la sua arguzia ironica in un altruismo (determinato dalla guerra) che appare quasi in contraddizione con la sua posizione. E’ proprio il personaggio interpretato da Maggie Smith a fungere da contatto tra il film di Altman (di cui l’attrice era co-protagonista) e questa serie imponente. Ed è un lampo di umorismo british come non si vedeva da tempo, mai sopra le righe, mai eccessivo, ma sottile, tagliente, amabile. Unico, verrebbe da dire, al di là dei suoi riferimenti letterari evidenti. Ma Downton Abbey non è soltanto uno specchio della società-alta. Come nel film di Altman, a dominare la scena è anche il mondo “sotterraneo” della servitù, la lunga schiera di camerieri e domestiche, di regole e di tradizioni che fanno da sfondo ai grandiosi allestimenti e al sostentamento della casa di campagna, che, a sua volta, impera su tutti i suoi componenti. Il personaggio di Anna e quello del signor Bates, il loro amore difficile ma duraturo, così come la crudeltà, poi esacerbata, di Sarah e di Thomas, nonché la profonda riverenza di Carson e il matrimonio lampo tra William e Daisy, sono dei mondi a sé stanti. Non sono le classi sociali ad essere rappresentate, bensì una molteplicità di mondi diversi che si integrano nella storia centrale, che poi non è altro che il risultato della Storia vera, quella del mutamento continuo. La posizione di Fellowes mi sembra non di critica ma di ricordo, quasi malinconico, del passato. In questo senso, per delineare il peculiare rapporto che intercorre tra famiglia di alto lignaggio e servitù, mi vengono in mente le parole di Toqueville che considerava gli aristocratici in grado, maggiormente dei rappresentanti democratici, di intrecciare una relazione rispettosa con i propri subordinati. E’ una posizione conservatrice quella di Fellowes, ma rimane rispettabile il suo studio così attento rivolto verso quel mondo. Sperando che la terza stagione non ci deluda e che non ci atterrisca come le nostre fiction di quarta scelta. Ma siamo sicuri che non sarà così. In più, ad interagire con Maggie Smith, ci sarà un’altra grande, Shirley MacLaine, e a buon intenditor, poche parole.
L’attesa è finita. “Downton Abbey -Terza Stagione” sarà proposta da ITV a partire dal 16 Settembre.
Stay Tuned.
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RispondiEliminaSalve,
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