Sorrentino attraversa l'oceano e va nell'America post-moderna dei giorni passati. Non c'è un tocco di presente reale, ma una dimensione temporale ibrida, completamente avvolta nel passato più o meno lontano, che sia quello anni '80 di David Byrne e della carriera feticcio dell'incarnazione prototipica del Robert Smith dei Cure ora divenuto un evocativo Cheyenne, oppure quello, appena visibile negli occhi intensi di un uomo-brandello, un criminale di guerra graziato dall'esilio, delle persecuzioni ebraiche in terra tedesca. Il passato è un eterno presente, un'attesa destinata a non essere mai completamente sanata, un modo di essere, una decisione. Così l'incontro di un padre morto fisicamente e un figlio morto interiormente, a trent'anni dall'ultimo vero contatto, è possibile solo grazie al viaggio all'indietro, on-the-road in un'America rurale e periferica alla Coen ma anche problematica e profondamente umana come in "Into the wild" dello stesso Sean Penn. "This must be the place", recita il titolo. Ed è uno spazio mentale prima di tutto, frutto di una vendetta glaciale ma anche carica di speranza, di una maturazione anti-freudiana ("chi non fuma è rimasto sempre bambino", quasi in antitesi alla psicanalisi), di un atto di nuova nascita dopo anni di morte colpevole interiore. E' raro trovare un anti-eroe come il Cheyenne interpretato da Sean Penn. Ed è raro soprattutto perchè il suo personaggio è insieme tanto realistico quanto macchiettistico (sarà anche il doppiaggio italiano, credo). Ma non si tratta di un demerito, quanto più di un merito. Cheyenne è un character irresistibile sin dalla prima battuta, sin dalla prima movenza. E' un'assurda manifestazione di realtà letteraria, l'alienato purissimo che si ritrova ad ricoprire il ruolo di un cattivo che non sarà mai e che è fuori dal suo DNA. Per molti può apparire un perdente, un loser, ma in realtà è il vincente, l'unico che raggiunge una maturità piena e che evolve da un'apparenza di ambiguità interiore esteriorizzata ad una decisione finale di "normalità" fisica pienamente rispondente alla concezione nuova della vita e delle sue potenzialità inespresse. Il passo di Cheyenne da "uomo-personaggio" ad "uomo-individuo" è la specificità del lungometraggio del Sorrentino americano, che tocca, quasi fosse un nuovo Coen, topic di tradizione yiddish (con un vendicatore di secondo piano, il quasi "tagliatore di teste" ebraico di nuova generazione Mordecai Midler, un Judd Hirsch in gran spolvero) e tendenze all'atipicità con humor parzialmente nero nella definizione del carattere protagonista. Anche la McDormand ritorna ad essere la donna dominante nella relazione di coppia, un po' come in "Fargo", mentre Olwen Fouere ha uno sguardo e un'attitudine molto lynchiani, magari del film più vicino al tono dell'opera, "Una storia vera". Ma in fin dei conti, la tradizione americana viene pienamente ripercorsa dal regista napoletano soprattutto nella scelta di una visionarietà meno complessa e più archetipica, rispetto alle perforanti riprese "intellettuali" e di interni claustrofobici delle sue opere precedenti. E' un quasi western moderno, da questo punto di vista, con campi lunghi necessari ad integrarsi con una tradizione diversa e con una storia molto più articolata. Un'opera ambiziosa che cerca di intercettare luoghi e temi tanto lontani e diversi con un semplice accostamento. In questa sua iper-citazione costante, sta uno stile ibrido in cerca di rinnovamento, ma con solide basi personali di partenza. Sorrentino non si adagia sul passato europeo, ma non si vende al cinema americano, quanto più opera una sintesi, per forza di cose limitante, ma anche intelligente e matura. E così il Byrne dei "Talking Heads" non è semplice strumento di raccordo al film con il suo vecchio successo "This must be the place" (in una sequenza-omaggio visionario di una bellezza e raffinatezza di cinesta europeo), ma anche un protagonista dell'opera stessa, attore e compositore finissimo (con gli eloquenti "The Pieces Of Shit") per una soundtrack memorabile. Da vedere. Lontano dalla perfezione, forse, ma estremamente riuscito e coinvolgente.
Sorrentino attraversa l'oceano e va nell'America post-moderna dei giorni passati. Non c'è un tocco di presente reale, ma una dimensione temporale ibrida, completamente avvolta nel passato più o meno lontano, che sia quello anni '80 di David Byrne e della carriera feticcio dell'incarnazione prototipica del Robert Smith dei Cure ora divenuto un evocativo Cheyenne, oppure quello, appena visibile negli occhi intensi di un uomo-brandello, un criminale di guerra graziato dall'esilio, delle persecuzioni ebraiche in terra tedesca. Il passato è un eterno presente, un'attesa destinata a non essere mai completamente sanata, un modo di essere, una decisione. Così l'incontro di un padre morto fisicamente e un figlio morto interiormente, a trent'anni dall'ultimo vero contatto, è possibile solo grazie al viaggio all'indietro, on-the-road in un'America rurale e periferica alla Coen ma anche problematica e profondamente umana come in "Into the wild" dello stesso Sean Penn. "This must be the place", recita il titolo. Ed è uno spazio mentale prima di tutto, frutto di una vendetta glaciale ma anche carica di speranza, di una maturazione anti-freudiana ("chi non fuma è rimasto sempre bambino", quasi in antitesi alla psicanalisi), di un atto di nuova nascita dopo anni di morte colpevole interiore. E' raro trovare un anti-eroe come il Cheyenne interpretato da Sean Penn. Ed è raro soprattutto perchè il suo personaggio è insieme tanto realistico quanto macchiettistico (sarà anche il doppiaggio italiano, credo). Ma non si tratta di un demerito, quanto più di un merito. Cheyenne è un character irresistibile sin dalla prima battuta, sin dalla prima movenza. E' un'assurda manifestazione di realtà letteraria, l'alienato purissimo che si ritrova ad ricoprire il ruolo di un cattivo che non sarà mai e che è fuori dal suo DNA. Per molti può apparire un perdente, un loser, ma in realtà è il vincente, l'unico che raggiunge una maturità piena e che evolve da un'apparenza di ambiguità interiore esteriorizzata ad una decisione finale di "normalità" fisica pienamente rispondente alla concezione nuova della vita e delle sue potenzialità inespresse. Il passo di Cheyenne da "uomo-personaggio" ad "uomo-individuo" è la specificità del lungometraggio del Sorrentino americano, che tocca, quasi fosse un nuovo Coen, topic di tradizione yiddish (con un vendicatore di secondo piano, il quasi "tagliatore di teste" ebraico di nuova generazione Mordecai Midler, un Judd Hirsch in gran spolvero) e tendenze all'atipicità con humor parzialmente nero nella definizione del carattere protagonista. Anche la McDormand ritorna ad essere la donna dominante nella relazione di coppia, un po' come in "Fargo", mentre Olwen Fouere ha uno sguardo e un'attitudine molto lynchiani, magari del film più vicino al tono dell'opera, "Una storia vera". Ma in fin dei conti, la tradizione americana viene pienamente ripercorsa dal regista napoletano soprattutto nella scelta di una visionarietà meno complessa e più archetipica, rispetto alle perforanti riprese "intellettuali" e di interni claustrofobici delle sue opere precedenti. E' un quasi western moderno, da questo punto di vista, con campi lunghi necessari ad integrarsi con una tradizione diversa e con una storia molto più articolata. Un'opera ambiziosa che cerca di intercettare luoghi e temi tanto lontani e diversi con un semplice accostamento. In questa sua iper-citazione costante, sta uno stile ibrido in cerca di rinnovamento, ma con solide basi personali di partenza. Sorrentino non si adagia sul passato europeo, ma non si vende al cinema americano, quanto più opera una sintesi, per forza di cose limitante, ma anche intelligente e matura. E così il Byrne dei "Talking Heads" non è semplice strumento di raccordo al film con il suo vecchio successo "This must be the place" (in una sequenza-omaggio visionario di una bellezza e raffinatezza di cinesta europeo), ma anche un protagonista dell'opera stessa, attore e compositore finissimo (con gli eloquenti "The Pieces Of Shit") per una soundtrack memorabile. Da vedere. Lontano dalla perfezione, forse, ma estremamente riuscito e coinvolgente.
Commenti
Qui mi trovi in pieno disaccordo.
RispondiEliminaQuello che dici è giusto ma basta a malapena un corto di 30 minuti, invece Sorrentino va avanti per 2 ore riempiendo con belle immagini fini a se stesse (il montone?), sotto-trame abbozzate (l'amore fra desmond e la dark?) e incursioni di personaggi inutili (l'indiano?).
E' un film placcato oro, ma con anima vuota.
L'apparizione di Byrne, per quanto bella, è l'emblema del film. Fine a se stessa.
;)
capisco molto bene la tua analisi, molte cose a livello narrativo non sono per nulla coerenti e amalgamate, veramente messe lì tanto per...
RispondiEliminaa me la cosa non infastidisce molto, non è un film perfetto, l'ho scritto, con sceneggiatura di ferro, ma quello che mi ha commosso è l'analisi dei personaggi (es oprattutto il percorso di crecita di Cheyenne), la capacità di Sorrentino di prendere dalla tradizione americana pur non snaturando la sua vocazione autoriale europea. e l'arte fine a sè stessa non sempre è un male, basta che non diventi presunzione pura e io Sorrentino non riesco a vederlo presuntuoso. al massimo appassionato a tal punto da rendere esteticamente accattivante, forse anche palccato oro, come dici tu, ciò che poteva essere di basso profilo. la fotografia di bigazzi, in questo, è una garanzia. molte grazie per il commento.
(e soprattutto il percorso di crescita di Cheyenne) sob
RispondiEliminaplaccato oro sigh
Great reading your bllog post
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