Un esperimento comunicativo di portata globale. "Life in a Day" segue due intenti-chiave, uno sociale/democratico e l'altro poli-post-artistico.YouTube, punto nevralgico di condivisione senza limiti de visu, ha sancito una rivoluzione nel contatto umano, un abbattimento di barriere prima invalicabili. Il 24 Luglio del 2010 il mondo del Web 2.0 sceglie di filmarsi, di esporsi in prima persona. Il regista, documentarista d'eccellenza, da poco prestato alla fiction con risultati discontinui, Kevin MacDonald, trova nell'assemblaggio/selezione dei vari montati la sua funzione primaria, oltre che nell'indirizzo complessivo dell'opera, sponsorizzata, con qualche enfasi eccessiva, dal duo Tony e Ridley Scot. Un lavoro di creatività ex post, soprattutto. Il tema è insieme banalissimo ed impervio. Una giornata, 24 ore per caricare sulla grande piattaforma di YouTube un video della propria vita, quotidiano/eccezionale, carico di vitalità o spento in una malinconica solitudine, sospeso tra tradizione locale ed esigenze di conformismo globale. Uno specchio dei nostri tempi. Una sorta di atlante geografico che si paventa immediatamente davanti ai nostri occhi con repentini mutamenti di luogo, mentre il tempo scandisce l'inizio, il culmine e la fine progressiva di una giornata che nasce e si manifesta secondo fusi orari diversi. Primo limite dell'opera è la sua ambizione smisurata. Ambizione intesa come discrepanza tra il punto di partenza universale e democratico e la scelta di cliché, di momenti tipizzati, di immagini già perfettamente integrate nel nostro inconscio collettivo. Lo stereotipo è il male del nostro tempo, la spina nel fianco del documentario, che di sua natura, è una parcellizzazione di realtà più incisiva e circostanziata. "Life in a day" non riesce a contrastare questa ovvia difficoltà di amalgama di materiale tanto diverso e si affida, in modo abbastanza acuto, ad una serie di domande-guida che servono a rendere lineare un discorso quasi narrativo. Ma la sua forza sta solo nel singolo frammento, nell'evocazione di un momento specifico, nel singolo individuo o comunità che si presta ad essere ripreso. Il frammento individuale, spesso commovente e interessante, perde valore quando viene travolto dal sopraggiungere di altrettanti frammenti, non sempre riusciti e spesso banali in un caos "organizzato" ma sempre vorticoso, incapace di dare il giusto valore alle persone, alle cose, ai suoni. Altro limite sta nella ripetitività fine a sé stessa, nell'eccesso di condensazione visiva che non sia strumentale ma solo artifizio senza significato, nella critica/ottica quasi impercettibile che pone le culture occidentali dominanti come limitate rispetto alla forza vitale delle culture più esotiche, il raccordo con sequenze di semplice intento descrittivo, scelte ad hoc, con giusta sound-track, a rimpinguare l'effetto emotivo, troppo controllato dalla mano del montatore per essere reale.Operazione coraggiosa, ma sponsorizzata ampiamente dalle solite multinazionali alla ricerca di nuovi spazi e frutto di un'ambiguità nell'assunzione militante di una specifica ottica/ideologia. E più che il mondo in quanto tale, vince la rappresentazione di una realtà mediata dall'uso della tecnologia e interna alla Rete. "Life in a day" cerca di inscrivere in un contenitore chiuso (il cinema della finzione) lo straripante mondo esterno, figlio del web o meno. E la sua è una missione impossibile, limitante e limitativa.
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