I Dardenne, questa volta, puntano a rendere leggero il loro dramma marcato. Ci riescono, pur non muovendosi di un passo dalla scelta di un'angolazione umanissima e dall'inquadramento di situazioni-limite tipiche della loro filmografia. "Il ragazzo con la bicicletta" è una nuova elaborazione poetica a tutto tondo per i registi, che cercano un raccordo più pressante con la cinematografia francese di Truffaut e di Vigo ("Zero in condotta"), a sua volta generatrice dei "casi" recenti di Cantet e di Sylvie Verheyde, non arrivando a toccare la medesima vetta in termini di qualità artistica. Il tentativo di ri-mediazione della poetica/politica degli autori è risolto in un'apertura formale meno controllata e rigida, che, non sempre mirata, riesce, in presa diretta, pur conservando inalterati molti degli elementi consueti della filmografia dei fratelli, a sostenere il parziale cambio di direzione contenutistico, grazie soprattutto all'apertura verso l'esterno e al deciso contatto/riappacificazione con il "dato naturale".
C'è una componente autoriale, nel cinema europeo in particolare, che è imprescindibile per attribuire una valenza positiva all'intera filmografia di un regista: è la coerenza della produzione. Contrariamente al sistema hollywoodiano delle tante possibilità tecniche, evolutive, di mutamento del genere di riferimento stesso del regista, l'ala europea ad un "autore" chiede sostanziale omogeneità poetica. E tanto più questa forma di organicità è richiesta da un cinema come quello transalpino, che ha fatto dell'elaborazione critica e teorica uno degli elementi portanti su cui sviluppare la speculazione cinematografica stessa, da Bazin in giù. I Dardenne, belgi di nascita, adottati praticamente dalla Francia Festivaliera di Cannes, non hanno mai smentito la loro poetica originaria. Storie forti, situazioni psicologiche cariche di tensione, rapporti interpersonali ed interfamigliari irrisolti, angolazione sociale, ampia generalità nella definizione del carattere ma lavoro minuzioso nell'individualità dell'interprete che entra in scena in quanto personaggio, fisicità marcata e forma tendenzialmente asettica, privata di orpelli inutili come score ridondanti. E i Dardenne hanno messo appunto un sistema comunicativo perfetto, di qualità, non sempre in grado di conquistare i gusti dello spettatore comune, ma affascinante ed unico. Sono stati, in maniera consequenziale, elogiati e acclamati come "autori" a tutto tondo. Se da una parte la costruzione di una forma integrata e circostanziale ha reso le opere dei Dardenne prima maniera dei piccoli capolavori intimi, la situazione è mutata parzialmente nell'ultimo periodo quando "Il silenzio di Lorna" ha mostrato il limite fondamentale del loro cinema, la ripetitività fine a sè stessa. E i due "artigiani" del cinema (da sempre attenti a dar man forte alla rappresentazione stessa del lavoro manuale nelle pellicole) hanno cercato di svincolarsi, con un certo successo, dalla precedente angolazione. "Il ragazzo con la bicicletta" ha un titolo programmatico che sembra avvicinarsi al nostro De Sica di "Ladri di biciclette" (a sua volta base del notevole "Le biciclette di Pechino" di Wang Xiao-shua) e infatti il mutamento va in questa direzione, puntando sulla rappresentazione dell'infanzia e riallacciandosi, come detto, con l'altra tradizione, quella francese, che ha avuto il suo culmine nei "Quattrocento Colpi" del buon Truffaut. La "conversione" dei Dardenne ad un cinema più popolare, meno chiuso in sè stesso, d'altronde non è indolore e infatti questo film è molto lontano dalla perfezione delle prove precedenti ed appare per lo più un tentativo di rifondazione. La rifondazione non passa attraverso i contenuti, ma si evidenzia nella forma, che perde la sua opprimente claustrofobia e arriva a semplificarsi del tutto, fino ad abbandonare gli interni per l'esterno naturale, mai così positivizzato come alla quasi-conclusione del film. I Dardenne, consapevoli della necessità di accordarsi ad una coerenza finale che non pregiudichi il contatto con la filmografia precedente, tendono ad aggiornarsi dall'interno in un'opera che è un semi-esperimento. Tanto che il quasi-finale lieto e paesaggistico non può essere il vero momento di conclusione dell'opera e subentra immediatamente l'elemento perturbante che viene risolto in modo repentino non grazie ad una formula comune e stereotipata ma come un evento "simil-miracoloso", giustificazione meta-artistica della nuova ottica esercitata dai registi. Da vedere quale sarà il loro prossimo approccio alla rifondazione della poetica tramite la forma.
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