"Boris - Il Film" è il più grande "sti cazzi" mai realizzato (intonato con cadenza romanesca di chi ha trovato una sorpresa gradita) . E solo questo ne fa un "lavoro a capo"assoluto, un "dai dai dai" da incenerirti, un immenso monopoli della commedia, un "film nel film" con tanti "cani e cagne maledette" memorabili. Se dipendesse da me, "Boris - Il film" sarebbe di diritto il candidato italiano agli Oscar 2012. La luce dopo ore e ore di buio. E di tempesta. E di buio tempestoso. E di tempesta buia. E di "vaccate".
La relativizzazione del concetto di genio è ormai un'abitudine dei nostri tempi. Se Giovanni Allevi, con la solita modestia di cui è capace, menziona, anche indirettamente, il termine "genio" associandolo alla sua persona, magari elencando punti di riferimenti capitali a cui si ispira, l'unica possibile spiegazione razionale è che la "genialità" sia di punto in bianco divenuta un bene non solo iperdemocratico ma anche attribuibile a proprio piacimento. Ognuno è il genio di sè stesso o di altri. Per questo ho deliberato che i miei "geni" del giorno sono Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, co-registi e sceneggiatori di "Boris", serial tv (che ho solo intravisto) e film da grande schermo giunto in sala il 1 Aprile di questo 2011. E sono geni per una semplice ragione. Perchè hanno messo su il "lavoro a capo" del nostro cinema contemporaneo, riuscendo in un sol boccone a demistificare il mondo in cui viviamo, che sia politico, televisivo, artistico, sociale e relazionale, come solo i grandi hanno fatto in passato. L'amaro diventa comico, grottesco, ma anche liberatorio, il paradossale nasconde il reale, ma anche il contario, il surreale diventa quotidiano, il quotidiano diventa esplosione narrativa, film nel film, set e riprese ma anche analisi ad ampio respiro e raggio. La "genialità" di "Boris - Il film" sta nella composizione e nella problematicità dei livelli di lettura resi sullo schermo con una compostezza e una semplicità matematica, razionale, ma anche dissacrante, incline al "non-sense" apparente, sovraccarica. Così i personaggi trovano una rispondenza immediata, che li si conosca o meno, e dialogano, indirettamente, con lo spettatore come se fossero interattivi, come se fossero normali "acquisizioni date", stereotipi con personalità. E che dire della coralità sistematica e della scrittura calligrafica e "ad orologeria" dei characters, le cui entrate in scena ed uscita fanno parte di un "teatro-mondo" di un realismo spiazzante? E che dire dell'immagine che ne viene fuori, dell'italia alla Gaber del "cinepanettone" e dei "radical-chic", della "casta" di Rizzo e Stella che diventa una casta a sua volta, della risata sguaiata e dello snobismo fasullo? E che dire di una Buy/Golino (la Marilita Loy di Rosanna Gentili) che sembra uscita da casa Moretti o di una "cagna" come la Crescentini costretta a recitare il ruolo della "cagna maledetta" (è forse l'attrice più autoironica degli ultimi tempi). E che dire di Renè Ferretti/Francesco Pannofino e dello "squalo" Boris? E della coppia Guzzanti/Tiberi l'asse portante di un set da barzelletta? E del Sermonti "finiano"? E soprattutto che dire dello scarso successo del film? Di quest'ultimo tutto il male possibile, con qualche mea culpa per la mancata visione al cinema. Del film, tutto il bene. Davvero.
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