La fiera del "già visto" in un pesante dramma da triangolo amoroso tutto giocato sugli eccessi macchiettistici di caratteri pedanti. Se qualcosa si salva, è nella capacità di congelare il tutto in un'eleganza della forma articolata e accattivante.
"Come l'acqua per gli elefanti" è un dramma vecchio stile, di quelli tutti giocati sulla voce narrante extradiegetica del personaggio principale (con rimando alla sequenza introduttiva e finale in cui il protagonista invecchiato apre e chiude il lungo flashback narrativo) e su una giustapposizione causa-effetto di eventi che hanno caratterizzato la giovinezza rimembrata di chi racconta. Così, seguendo una linearità temporale estremamente precisa (e l'elemento "convenzionale" diventa troppo evidente anche per lo spettatore meno scaltro), l'opera è una summa di elementi diversi tutti legati all'atmosfera circense e al rapporto triangolare tra i personaggi fondamentali. Per quanto, infatti, i characters secondari cerchino di entrare in scena, la semplicistica evoluzione narrativa richiede la presenza di un protagonista, un antagonista e l'oggetto (soggetto in questo caso, la donna) del contendere, determinando brusche uscite di scena dei personaggi di contorno, usati come aiutanti/oppressori, secondo l'ottica classica, o al massimo per aumentare la carica grottesca di singoli frammenti descrittivi fini a sè stessi. A ciò magari si aggiunge, come in ogni racconto che si rispetti, un riferimento al mondo animale (in questo caso l'elefantessa Rose) naturalmente antropoformizzato. Ed ecco, che il melò vien fuori, carico di violenza, personaggi manichei definiti a priori (ed è un peccato vedere un attore premio Oscar come Christoph Waltz diventare una stanca ripetizione del "folle cattivo sadico" in ogni comparsata/parte che recita nei film hollywoodiani, non dimenticando il ruolo in "The green hornet"), e scene strappalacrime, con una serie di traversie per il giovane eroe-buono (Pattinson che si sporca il viso e che non farebbe male ad una mosca, come San Francesco) e per la povera Reese Whiterspoon, che, tra un vestito luccicante e l'altro, è costretta a subire le angherie/umiliazioni del violento amante/datore di lavoro, tutto dedito al guadagno, all'accumulo, quasi un "Mastro Don Gesualdo" e alla forza bruta contro i suoi dipendenti, animali o meno. La "favoletta" (perchè il livello di analisi psicologica è quella, ma evitando anche un discorso pedagogico/simbolico complesso) è riuscita, ma qualche levigatura gli ha impedito di essere troppo trash. C'è infatti un assetto di ricostruzione visiva, firmato Francis Lawrence e "fotografato" dal grande Rodrigo Prieto che si sottrae alla normale destinazione dell'opera e la nobilita. Per quello che può.
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