Il prolifico Kevin MacDonald torna al lungometraggio di fiction con la terza pellicola della sua carriera, ad anni di distanza dal successo di "The last king of Scotland" e "State of Play". "The Eagle" è un imperfetto e stantio tentativo di ripetere i fasti del "Gladiatore" con tanto di flashbacks reiterati e adeguamento storico risibile, ma mantiene una certa verve adrenalinica grazie ai due interpreti, Channing Tatum e Jamie Bell, a cui aggiungere una regia ben calibrata e una cinematografia spettacolare.
6+/10
"The Eagle" era una scommessa persa in partenza. Non c'era bisogno di un àugure della vecchia romanità, chiamato ad osservare il movimento degli uccelli, per trarre conclusioni produttive e qualitative sulla sorte filmica di un prodotto del genere. Assodato questo concetto, che, d'altronde, è una caratteristica della gran parte dell'opera storica ambientata in epoca classica, trasposta sul grande schermo negli ultimi decenni (dal fallimento di "Cleopatra" in poi, capace di ridurre in fumo tutte le risorse produttive del meccanismo ritenuto infallibile dello studio-system studi, nel 1963), possiamo, dando il beneficio del dubbio sull'intenzionalità economica/commerciale alla base della realizzazione, constatare come l'opera in questione, firmata Kevin MacDonald, abbia in sè elementi, spesso non marginali rispetto alla struttura e al contenuto, che possono far pensare ad un piccolo passo in avanti. Il peplum è dispendioso e difficile, ma anche estremamante "popular". La cultura "pop", in tal senso, ha avuto un unico grande riferimento moderno ne "Il Gladiatore", inizio Nuovo Millennio, "mano e testa" (alla regia) di Ridley Scott. Piuttosto che fossilizzarmi sugli elementi della pellicola (verso cui non nutro grandi elogi) in questione, vorrei far notare come la produzione successiva a questo successo coronato da un numero eccedente di statuette dorate, in un periodo di "vacche magre" per il cinema indie, sia stata caratterizzata da una preminenza della citazione/copia & incolla, evidente o implicita di caratteristiche insite alla stessa pellicola-madre. Si può dire che la produzione storica/classica abbia trovato una sua nuova fonte di ispirazione. E così è nata la serialità "Rome", produzione HBO, in cui sesso e violenza giganteggiavano sullo schermo, nella loro accezione più "splatter" e disinibita. D'altronde, non è da dimenticare che "Il Gladiatore" è un ibrido cinematografico piuttosto insolito che unisce alla ricostruzione scenografica dettagliata tipica del peplum un'esagerazione di elementi eterogenei che provengono dalla tessitura di generi "canonizzati" e con inflessioni contenutistiche post-80's. Per dirla tutta, l'azione diventa ripresa digitale, e non più campo lungo di griffitthiana memoria, e il carattere diventa "psicologico" (per quanto forzato e sconnesso) piuttosto che inquadrato tenendo fede a stereotipi/topos vecchio stampo da epoca d'oro. Dal "Gladiatore" in poi, il passo successivo è "The Eagle", scarso successo in patria, low-budget, scelta di un director che riesce meglio nel documentario ("Touching the void" è stato il suo punto qualitativo superiore) che altrove, e due attori antitetici, il forzuto "macho-man" Channing Tatum, insolitamente ispirato (il contrario di un monoespressivo Russel Crowe) e il "Billy Elliott" inglese con lentiggini e attitudine teatrale (qui contenuta al massimo) Jamie Bell. La coppia, in qualche punto comica per una quasi parodia del "botte da orbi" del gradasso Van Damme, funziona bene sul grande schermo e l'alchimia fa quasi da contrappeso all'assoluta chiusura interpretativa di Sutherland padre, presenza sfuggevole, dopo una grande carriera, di blockbuster dalla discutibile qualità. Da "il Gladiatore", "The Eagle" prende l'elemento cameratesco e la fedeltà all'onore, ma anche l'eccessivo peso "paternalistico", tipico della cultura patriarcale romana con tanto di flashbacks emotivi abusati. La credibilità del prodotto, è, dunque, anche tenendo conto dell'elemento leggendario dell'aquila, che è il leit motiv che mette in moto l'azione e la conclude, scarsa, ma non per questo, quanto per la banalità di alcune situazioni sequenziali, l'opera non si può dire completamente riuscita. Il livello del cast tecnico è buono soprattutto considerando gli splendidi movimenti di macchina e la cromia conturbante del direttore della fotografia, "indie-style", Anthony Dod Mantle.
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