Capolavori - Scarpette Rosse









Un possente melò mascherato da musical, sull'arte, la sua ricchezza e le sue degenerazioni. E' un horror puro, di rara forza drammatica e disturbante, in cui la macchina da presa è mobile come una piroette di una ballerina in preda ad un collasso nervoso. Grande espressione di interartisticità ("opera totale"), "Scarpette Rosse" è una splendida visione tra l'onirico e il reale, perfettamente integrata con l'arte del suo tempo, di carattere avanguardistico e popolare insieme, in cui la costruzione visiva non è incidentale ma direttamente legata all'attitidine teatrale dei personaggi che si muovono sulla scena. Il più grande film sull'ossessione artistica, è anche tra le più mirabil ricostruzioni scenografiche e, soprattutto, l'opera più ammaliante legata al topos della danza sullo schermo.

La grandissima forza attrattiva di "Scarpette Rosse", ancora amatissimo dalle generazioni attuali, è soprattutto imputabile alla sua grandiosa modernità. Quando parlo di modernità, non faccio menzione solo delle grandi trovate tecniche, alla base del progetto, nè all'importanza assunta dalla danza, divenuta, nel corso del tempo, espressione "popolare" nel senso più ampio della parola (con tanto di serialità più o meno riuscita di tipo cinematografico, da "Fame" a "Footloose", da "Dirty dancing" a "Step Up", senza dimenticare il diretto discendente della pellicola, quel "Black Swan" di Aronofsky che ha riempito, qualche mese fa, le sale un po' ovunque). "Scarpette Rosse" è moderno perchè è disturbante, conturbante, drammatico come solo un melò vecchio stile sa essere, ma è anche incalzante, torbido, sincopato come solo un musical sa essere, in costante bilico tra avanguardia visiva (con un'ampia porzione della scansione temporale occupata interamente dall' allestimento dell'opera di Andersen "The Red Shoes", vista nei suoni toni più lugubri e acidi insieme) e narratività lineare, in cui i sentimenti fanno da sfondo prima di raggiungere il climax emotivo, quasi senza cognizione, nella seconda parte. In questo senso "Scarpette Rosse" è un film sul mistero, o meglio misterioso, senza appigli alla classicità Hollywoodiana, ma con rimandi dal "fantastico" al "gotico" all' "introspettivo" e al "simbolico". E' proprio la persistenza di letture critiche e l'incapacità di aderire del tutto ad ognuna di esse a costituire la fonte immortale della pellicola. I due registi, Powell e Pressburg, dal canto loro, arrivano a studiare, con viva partecipazione, l'effetto dell'arte, intesa come manifestazione ossessiva e creano un parallelo tra arte e vita che non ha molti precedenti nella cinematografia novecentesca. Il film non è conciliante, ma è un dissidio, che diventa dramma, laddove lo è sempre stato, nella sua identificazione semantica con il dramma teatrale. L'opera di Andersen è, quindi, insieme usata e modificata per diventare la parte decorativa ma anche allusiva della pellicola, in un costante bilico tra la rappresentazione e la realtà. In questo modo, il film, che ha una durata superiore al normale, non perde un minimo di credibilità a livello strutturale e diventa tanto teatro, quanto danza, quanto musica, tanto cinema, senza essere niente di definito. "Scarpette Rosse" è il film più classico e innovativo della cinematografia anni '40, in cui la "totalità" dell'arte raggiunge una sua perfetta sintesi, affacciandosi alla psicanalisi, ma non assoggettando la propria storia nè ad essa nè a qualsiasi altra componente che non sia ibrida. L'immanenza del capolavoro è data dall'insieme, dall'ensamble e dalla forza che ogni componente trascende ed esteriorizza. Sono certo che "The Red Shoes", sotto questa forma complessa e tecnicamente riuscitissima, sarebbe piaciuto a Wagner. E piace a chi cerca la perfezione, ma anche a chi pretende il puro caos primordiale. "Due forze uguali e contrarie"

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