De Sica, ancora con Zavattini, cerca un contributo meno di impatto, svia dal neorealismo, lontano ormai il dopoguerra e si definisce, come regista di fama, integrato nel sistema cinematografico, non ad esso parallelo. E’ un De Sica che non perde i tratti della poesia, ma suona meno sincero, forse un po’ manierato. In realtà, è un arco di carriera a sé stante, con risultati, di certo, più modesti, ma assolutamente notevoli. L’oro di Napoli non è il tesoro nascosto sotto il mare, il forziere coricato in una zona impervia, ai bordi del Vulcano, non è la pulizia del Vomero o la sporcizia delle periferie, non è nel mondo sotterraneo che ricorda la sua storia antica , né nel vicolo dei presepi d’arte, con le statuine di una creatività ormai senza guizzi. L’oro di Napoli sta nelle espressioni, nelle usanze, nei costumi, negli atteggiamenti di chi porta Napoli nel cuore. Gli anni ’50 sono, per la città partenopea, il momento forse più poetico, in cui emerge, forte, il contrasto tra il vecchio ed il nuovo, in prospettiva politica, ma soprattutto nelle nuove modalità di vita dei napoletani. Napoli è una sceneggiata in piazza, sulla via grande, o nei piccoli rioni, e, come ogni sceneggiata, si riempie di espressioni veraci, a volte carnevalesche, a volte sincere, puntando sul melodramma. C’è Totò, l’anima di Napoli, il suo fiore più alto, che unisce la teatralità innata dei suoi movimenti con la necessita di un copione da cinema. Ci riesce in questo film, assumendo toni più forti, pompati di una carica nuova, alla fine del suo episodio, dopo che il momento di lucidità e la ribellione al “guappo” si trasformano in un senso di impotenza che è integerrima e fiera. C’è Sophia Loren, ancora giovane, con il baldacchino prosperoso e le pizze fritte ed il "dramma" dell’anello di smeraldo verde e il bacio appassionato, svestita, con un giovane aitante, mentre il povero Paolo Stoppa fa di ingenuità virtù. Eduardo ha la sua solita carica drammaturgica, il viso scalfito, ma un ruolo di grande rilievo; negli ultimi dieci minuti, da semplice incisore, mostra la differenza tra nobiltà valoriale, di relazione con la gente, e nobiltà di nascista, a cui una pernacchia normale non basta. Un episodio non era mai giunto al cinema, forse il più realistico, con il funerale di un angelo bianco, i confetti lanciati e rincorsi dalla schiera di bambini, ed un lucido corteo, senza fronzoli. Divertente e surreale, autobiografico, il gioco a carte tra un duca internato e un ragazzino, figlio del custode, con la felicità di uno stacco finale del De Sica degli anni d’oro. Molto complesso l’episodio di Teresa, “una di quelle”, romana, che si trova a gestire un matrimonio combinato, tra smarrimento e accettazione della realtà. E’ Silvana Mangano la migliore attrice del film, ha il ruolo più complesso, quello di una passeggiatrice e la morbidezza interpretativa che non ha nulla completamente del popolare o del colto, a livello stilistico, ma è una via di mezzo realistica.
De Sica, ancora con Zavattini, cerca un contributo meno di impatto, svia dal neorealismo, lontano ormai il dopoguerra e si definisce, come regista di fama, integrato nel sistema cinematografico, non ad esso parallelo. E’ un De Sica che non perde i tratti della poesia, ma suona meno sincero, forse un po’ manierato. In realtà, è un arco di carriera a sé stante, con risultati, di certo, più modesti, ma assolutamente notevoli. L’oro di Napoli non è il tesoro nascosto sotto il mare, il forziere coricato in una zona impervia, ai bordi del Vulcano, non è la pulizia del Vomero o la sporcizia delle periferie, non è nel mondo sotterraneo che ricorda la sua storia antica , né nel vicolo dei presepi d’arte, con le statuine di una creatività ormai senza guizzi. L’oro di Napoli sta nelle espressioni, nelle usanze, nei costumi, negli atteggiamenti di chi porta Napoli nel cuore. Gli anni ’50 sono, per la città partenopea, il momento forse più poetico, in cui emerge, forte, il contrasto tra il vecchio ed il nuovo, in prospettiva politica, ma soprattutto nelle nuove modalità di vita dei napoletani. Napoli è una sceneggiata in piazza, sulla via grande, o nei piccoli rioni, e, come ogni sceneggiata, si riempie di espressioni veraci, a volte carnevalesche, a volte sincere, puntando sul melodramma. C’è Totò, l’anima di Napoli, il suo fiore più alto, che unisce la teatralità innata dei suoi movimenti con la necessita di un copione da cinema. Ci riesce in questo film, assumendo toni più forti, pompati di una carica nuova, alla fine del suo episodio, dopo che il momento di lucidità e la ribellione al “guappo” si trasformano in un senso di impotenza che è integerrima e fiera. C’è Sophia Loren, ancora giovane, con il baldacchino prosperoso e le pizze fritte ed il "dramma" dell’anello di smeraldo verde e il bacio appassionato, svestita, con un giovane aitante, mentre il povero Paolo Stoppa fa di ingenuità virtù. Eduardo ha la sua solita carica drammaturgica, il viso scalfito, ma un ruolo di grande rilievo; negli ultimi dieci minuti, da semplice incisore, mostra la differenza tra nobiltà valoriale, di relazione con la gente, e nobiltà di nascista, a cui una pernacchia normale non basta. Un episodio non era mai giunto al cinema, forse il più realistico, con il funerale di un angelo bianco, i confetti lanciati e rincorsi dalla schiera di bambini, ed un lucido corteo, senza fronzoli. Divertente e surreale, autobiografico, il gioco a carte tra un duca internato e un ragazzino, figlio del custode, con la felicità di uno stacco finale del De Sica degli anni d’oro. Molto complesso l’episodio di Teresa, “una di quelle”, romana, che si trova a gestire un matrimonio combinato, tra smarrimento e accettazione della realtà. E’ Silvana Mangano la migliore attrice del film, ha il ruolo più complesso, quello di una passeggiatrice e la morbidezza interpretativa che non ha nulla completamente del popolare o del colto, a livello stilistico, ma è una via di mezzo realistica.
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