Review 2011 - White Material



















8.5 su 10

"White Material" è un film pretenzioso. Di quelli in cui dalle prime sequenze, con tanto di colonna sonora vibrante, non puoi che cominciare a contare i minuti che ti separano dalla fine per scrivere quanto sia "pieno di sè". Ma il termine "pretenzioso" deve essere rivalutato, almeno alla luce di film che pur essendo tali, sono anche delle opere preziose e vive, emozionanti, di quelle che si insinuano sotto la pelle e non ti lasciano con facilità. Ho visto "White Material" tre volte e la cosa non mi è solita (è capitato con "Quarto potere" o con le commedie ad alta trasmissione televisiva). Ed ogni volta ho scoperto particolari che ad una prima visione non coglievo, non solo per ciò che concerne la perizia tecnica, ma soprattutto per lo sviluppo narrativo. "White material" è uno di quei film in cui l'ellissi domina senza possibilità di oggettiva ricostruzione. Alcuni avvenimenti, anche tragici, sono filtrati dalla macchina da presa della mgnifica Claire Denis che sceglie di non ritrarli, di camuffarli, di non esplicitarli, se non nell'effetto ma dimenticandosi volutamente di chiarire la cusa. All'inizio è un pò difficile integrarsi nel film, che parte con un'accoglienza dello spettatore nell'ambiente africano. Ma quale Africa? Ve lo dico subito. Non l'Africa da cartolina, non l'Africa da gita turistica, ma quella viva, vitale, brutale, dalla sabbia rossa, quella delle bellezze paesaggistiche, dell'amenità, del caldo oppressivo e del sole che non c'è veramente, appare appena, quella dell'umidità strisciante evidente nel sudore, quella avvolta da una nebbia di coltre sabbiosa e da una natura impervia in entrambe le sue connotazioni, arida e intricata. Un'Africa che non vedrete altrove e che solo la Denis può capire e rappresentare, con fotografia di Yves Cape a dare man forte. La vicenda dei proprietari terrieri francesi Vial, con la loro piantagione di caffè, diventa un vero horror intriso di elementi introspettivi. Alla vera e unica proprietaria-simbolo, attaccata alla propria terra in modo ossessivo, l'intensa Isabelle Huppert (attrice che non condivide nulla o quasi del metodo Binoche ed è un bene per lei), si oppone un fantasma comune a molti paesi africani: il colpo di Stato, la ribellione, la guerra civile, le fazioni. E così che la sua tenuta diventa il punto focale, il crocevia dei repentini passaggi di mano tra poteri militari. Ma l'idea di un film di guerra o con connotazioni sociali non vi fermi dalla visione. E' un film molto lontano da quei generi, caratterizzato da un innesto contrurbante e, anche in questo caso, non facile da esprimere con un'unica parola. "White material" è un luogo, prima frammentario, quasi difficile da comprendere (e la tecnica di montaggio sembra proprio essere quella del frammento espressionista, in cui la descrizione paesaggistica svolge una funzione chiave nell'esprimere l'elemento perturbante), poi definito in modo nebuloso dal passaggio delle parti in lotta, ed è anche un avamposto aperto all'abbandono dei reduci dal lavoro della tenuta e aperto al vecchio fuoco "amico", quello della popolazione locale, o meglio di una sua parte, che ha sempre guardato con invidia a quel mondo latifondista-sfruttatore. Colonialismo, un tempo lo chiamavano. Da questo assunto già accattivante e problematico di suo, deriva l'evolversi della storia che è un vero incedere di cambiamenti, verso la meta ultima, la distruzione, senza redenzione, senza spiegazione, senza lucidità. E' proprio alla fine della pellicola che i toni diventano insostenibili e la regista ritorna al frammento narrativo, decidendo di svelare, come detto, la conseguenza dell'avvenimento, ma saltando piani temporali ed azioni decisive, il che rende più complessa e sfuggevole la comprensione, per certi versi impossibile nella sua concatenazione ed evidente solo nel suo esito drammatico. Con mano ferma, e immagini di bellezza unica, la Denis affresca la sua Africa senza mezze misure e delinea un piccolo romanzo insieme famigliare, sociale e storico che non perde mai il senno, anche nei momenti apparentemente più forzati.  Le forzature della sceneggiatura ci mostrano
il bisogno di destrutturare un mondo cinematografico popolato dai clichè.

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