Il film meriterebbe una seconda visione, per un giudizio più preciso. Mi ha colpito molto la relativa asciutezza. Potrebbe essere considerato un film drammatico che rende scarne le emozioni, non le amplifica. In un certo senso, più che un grido, "Rabbit Hole" è uno sguardo. Per questo, mi ha ancora più colpito il nome di chi sta dietro al progetto, John Cameron Mitchell, abituato ad ostentare piuttosto che a reprimere ogni cosa, sentimento, sessualità, fino ad estremizzare i personaggi. In questo caso, il lavoro di direzione degli attori è molto diverso, tale da rendere irriconoscibile la cifra stilistica del regista finora nota. Azzardo nel dire che l'anima del film non stia in Mitchell ma nella produttrice e attrice principale, Nicole Kidman. La Kidman, maestra di tecnica, riempie con la sua algidità emotiva e le tante sfumature della sua recitazione ogni sequenza in cui compare. Il soggetto sembra stato scelto su misura da parte dell'attrice, così come tutti gli elementi (attori, regia, ambientazioni) non fanno altro che far emergere ancora maggiormente il suo profilo. Per queste ragioni, se dovessi parlare di un'artefice che sta dietro al tutto, piuttosto che riferirmi al regista, allo sceneggiatore (anche scrittore del testo da cui è tratto), all'intero ensamble attoriale, con un intenso Aaron Eckart e una sfumata Dianne West, non posso che pensare che il film sia in gran parte riuscito grazie a Nicole. In secondo luogo, mi preme sottolineare come "Rabbit Hole" non sia un film di azione ma di elaborazione. Nel corso di un'ora e mezza, niente sconvolge davvero la vita dei due coniugi, che è come ovattata, repressa, chiusa nell'anticamera di un dolore fortissimo. Non c'è da attendersi un coupe de theatre, ma piuttosto cercare di cogliere le sfumature dei sentimenti. Il film, inoltre, non si propone di chiarire in modo pragmatico ed esplicito, le storie che riguardano il passato, con la tragica dipartita del figlio, nè di definire precisamente le motivazioni che animano i protagonisti nel loro quotidiano. Il taglio narrativo è poco invadente, rispetto all'atmosfera e alla lettura psicologica dei characters. Il merito di "Rabbit Hole" sta nella sua immanenza, nella rappresentazione in presa diretta di sentimenti piuttosto che di azioni. C'è un confronto molto forte, ma non per questo da melò, grazie ad accorgimenti di regia e di recitazione, tra i due coniugi. Il film mostra la sua indipendenza nella perfetta asetticità visiva che si accompagna ad un'attenzione interiore più che esteriore ai personaggi. E piuttosto che commemorare/enfatizzare il lutto a breve termine, ha l'importante merito di affrontare le sue ripercussioni a lungo termine. Il finale è più esplicito di molte parole.
Il film meriterebbe una seconda visione, per un giudizio più preciso. Mi ha colpito molto la relativa asciutezza. Potrebbe essere considerato un film drammatico che rende scarne le emozioni, non le amplifica. In un certo senso, più che un grido, "Rabbit Hole" è uno sguardo. Per questo, mi ha ancora più colpito il nome di chi sta dietro al progetto, John Cameron Mitchell, abituato ad ostentare piuttosto che a reprimere ogni cosa, sentimento, sessualità, fino ad estremizzare i personaggi. In questo caso, il lavoro di direzione degli attori è molto diverso, tale da rendere irriconoscibile la cifra stilistica del regista finora nota. Azzardo nel dire che l'anima del film non stia in Mitchell ma nella produttrice e attrice principale, Nicole Kidman. La Kidman, maestra di tecnica, riempie con la sua algidità emotiva e le tante sfumature della sua recitazione ogni sequenza in cui compare. Il soggetto sembra stato scelto su misura da parte dell'attrice, così come tutti gli elementi (attori, regia, ambientazioni) non fanno altro che far emergere ancora maggiormente il suo profilo. Per queste ragioni, se dovessi parlare di un'artefice che sta dietro al tutto, piuttosto che riferirmi al regista, allo sceneggiatore (anche scrittore del testo da cui è tratto), all'intero ensamble attoriale, con un intenso Aaron Eckart e una sfumata Dianne West, non posso che pensare che il film sia in gran parte riuscito grazie a Nicole. In secondo luogo, mi preme sottolineare come "Rabbit Hole" non sia un film di azione ma di elaborazione. Nel corso di un'ora e mezza, niente sconvolge davvero la vita dei due coniugi, che è come ovattata, repressa, chiusa nell'anticamera di un dolore fortissimo. Non c'è da attendersi un coupe de theatre, ma piuttosto cercare di cogliere le sfumature dei sentimenti. Il film, inoltre, non si propone di chiarire in modo pragmatico ed esplicito, le storie che riguardano il passato, con la tragica dipartita del figlio, nè di definire precisamente le motivazioni che animano i protagonisti nel loro quotidiano. Il taglio narrativo è poco invadente, rispetto all'atmosfera e alla lettura psicologica dei characters. Il merito di "Rabbit Hole" sta nella sua immanenza, nella rappresentazione in presa diretta di sentimenti piuttosto che di azioni. C'è un confronto molto forte, ma non per questo da melò, grazie ad accorgimenti di regia e di recitazione, tra i due coniugi. Il film mostra la sua indipendenza nella perfetta asetticità visiva che si accompagna ad un'attenzione interiore più che esteriore ai personaggi. E piuttosto che commemorare/enfatizzare il lutto a breve termine, ha l'importante merito di affrontare le sue ripercussioni a lungo termine. Il finale è più esplicito di molte parole.
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