Continuiamo il percorso con Francois Truffaut. E saltiamo, repentinamente, agli ultimi anni della sua carriera. E' il 1980 ed esce "L'ultimo metrò", quello che riporta a casa prima del coprifuoco, in tempo di guerra, dopo aver passato una serata nel teatro cittadino, magari interrotta dai continui bui in sala sotto gli attacchi aerei ripetuti. Se siete di facili collegamenti, vedrete che Tarantino degli "Inglorious Basterds" deve al Truffaut di "L'ultimo metrò" molto di più di quanto debba a Castellari, di cui propone il remake. E il tipo di omaggio (e quinda la relativa ripresa) è soprattutto visivo. Truffaut sceglie il teatro, luogo insolito per il suo mondo, e ambienta tutto il film dentro le sue mura, che siano perfette e voluttuose come in superficie o rattrappite e sfigurate da crepe come nella cantina-topaia, ricostruendo l'atmosfera con un'accortezza encomiabile. Che Truffaut sia diventato un realista attento al vezzo? No, per nulla, infatti sceglie una piece teatrale nordica, "La donna scomparsa" e costruisce un mondo di doppiezza/triangoli, buio e luce, apparenza fugaci e realtà indirette, fino a giocare con sè stesso e con il ruolo dell'artista. Parigi, la Parigi della Repubblica di Vichy, la Francia divisa in due ma di cui si vede solo una parte, la vita cittadina in tempo di occupazione, il teatro come svago, come rifugio, come simbolo indiretto della resistenza e del rifugio, come vita che continua mentre fuori alberga la guerra. Ecco i luoghi. Il teatro di Truffaut ricorda il film di Tarantino (o meglio il contrario), con i suoi connotati tendenti al rosso e le sue architetture da "dietro le quinte". E diventa il luogo dove si ordiscono trame, non splatter nè drammatiche e satireggianti come in "Bastardi senza gloria", ma umane, riflessioni contemplative (e non incidentali) sull'arte e il ruolo dell'artista-burattinaio, e soprattutto visione umanizzante della storia, individuale, senza introdurre personaggi altisonanti, ma puntando su tipi, magari un pò distanti, come quelli della commedia messa in piedi. E quindi la prigionia dell'artista diventa la sua condanna/opportunità, mentre una critica fa propri i criteri ariani di razza ed etichetta come ebraizzante una regia (anche se il personaggio del censore e critico, nel film, non è di facile lettura), e il mondo continua a proseguire, tra passioni inattese e baci dimenticati. Così si contempla il triangolo amoroso tra la Deneuve, Depardieu e Heinz Bennen, ma niente "Jules e Jim", giacchè la Steiner della Deneuve è diversa dalla Catherine di Jeanne Moureu del film del 1962, si sacrifica, ed è integerrima e dura come una scorza, e i due uomini sono mediati dalla comune passione per l'arte. Truffaut porta in scena il teatro, la storia, i sentimenti. Con maestria. Grande maestria.
Continuiamo il percorso con Francois Truffaut. E saltiamo, repentinamente, agli ultimi anni della sua carriera. E' il 1980 ed esce "L'ultimo metrò", quello che riporta a casa prima del coprifuoco, in tempo di guerra, dopo aver passato una serata nel teatro cittadino, magari interrotta dai continui bui in sala sotto gli attacchi aerei ripetuti. Se siete di facili collegamenti, vedrete che Tarantino degli "Inglorious Basterds" deve al Truffaut di "L'ultimo metrò" molto di più di quanto debba a Castellari, di cui propone il remake. E il tipo di omaggio (e quinda la relativa ripresa) è soprattutto visivo. Truffaut sceglie il teatro, luogo insolito per il suo mondo, e ambienta tutto il film dentro le sue mura, che siano perfette e voluttuose come in superficie o rattrappite e sfigurate da crepe come nella cantina-topaia, ricostruendo l'atmosfera con un'accortezza encomiabile. Che Truffaut sia diventato un realista attento al vezzo? No, per nulla, infatti sceglie una piece teatrale nordica, "La donna scomparsa" e costruisce un mondo di doppiezza/triangoli, buio e luce, apparenza fugaci e realtà indirette, fino a giocare con sè stesso e con il ruolo dell'artista. Parigi, la Parigi della Repubblica di Vichy, la Francia divisa in due ma di cui si vede solo una parte, la vita cittadina in tempo di occupazione, il teatro come svago, come rifugio, come simbolo indiretto della resistenza e del rifugio, come vita che continua mentre fuori alberga la guerra. Ecco i luoghi. Il teatro di Truffaut ricorda il film di Tarantino (o meglio il contrario), con i suoi connotati tendenti al rosso e le sue architetture da "dietro le quinte". E diventa il luogo dove si ordiscono trame, non splatter nè drammatiche e satireggianti come in "Bastardi senza gloria", ma umane, riflessioni contemplative (e non incidentali) sull'arte e il ruolo dell'artista-burattinaio, e soprattutto visione umanizzante della storia, individuale, senza introdurre personaggi altisonanti, ma puntando su tipi, magari un pò distanti, come quelli della commedia messa in piedi. E quindi la prigionia dell'artista diventa la sua condanna/opportunità, mentre una critica fa propri i criteri ariani di razza ed etichetta come ebraizzante una regia (anche se il personaggio del censore e critico, nel film, non è di facile lettura), e il mondo continua a proseguire, tra passioni inattese e baci dimenticati. Così si contempla il triangolo amoroso tra la Deneuve, Depardieu e Heinz Bennen, ma niente "Jules e Jim", giacchè la Steiner della Deneuve è diversa dalla Catherine di Jeanne Moureu del film del 1962, si sacrifica, ed è integerrima e dura come una scorza, e i due uomini sono mediati dalla comune passione per l'arte. Truffaut porta in scena il teatro, la storia, i sentimenti. Con maestria. Grande maestria.
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