In molti troveranno "Les Amours imaginaires" un film autoreferenziale e formalista. E non c'è torto in questa osservazione. Per altri, il confronto con il meno preparato Tom Ford, regista del discutibile (e per chi vi scrive ammorbante) "A single man", sembra un obbligo. Patinato, rallentato, pubblicitario. In realtà, non c'è storia. Xavier Dolan, 21 anni, attivo da una vita, presenta a Cannes il suo secondo film da regista (era stato acclamato con "J'ai tué ma mère") e fa il botto, lasciando i suoi concorrenti al palo. E' molto difficile, o meglio improprio, parlare di genialità. Eppure questo folletto canadese è, per molti versi, un piccolo genio. La genialità deriva dalla sua capacità multiforme di curare ogni aspetto della pellicola, dalla recitazione (è un ottimo attore) al montaggio, alla sceneggiatura, al gusto scenico che unisce componente tipicamente artigianale a basso budget ad uno stile ultracitazionista che è una rielaborazione accorta dei modelli passati. In "Les Amours imaginaires" un ruolo importante lo giocano gli abiti, i monili, i contrasti cromatici, il monocromatismo di alcune scene. Il film, a differenza della pellicola di Tom Ford, non mira a ricreare un mondo patinato, ma è l'esaltazione compendiaria di buona parte dell'arte anni '60 e '70 (Audery Hepburn imperat) fino agli anni '30 della scuola Bauhaus, di cui compare un testo (un riferimento è evidente in una sequenza molto intima). Ma non c'è un semplice effetto vintage o di rielaborazione. Dolan non si mostra saccente e prende in giro il concetto stesso di vintage, quando, nel vedere la mise della sua antagonista, sottolinea come non tutto il vintage sia bello da riportare in auge. Ciò che colpisce è la capacità di creare un'amalgama che metta insieme capacità visionaria e sonora, in qualunque forma quest'ultima si espliciti (la soundtrack ha un tono evocativo quanto la recitazione e anche la versione di "Bang Bang" sembra essere nuova e ammaliante grazie ad un uso smaccatamente pubblicitario). Così il ralenty, il sussulto emotivo, il movimento teatrale sono riaggiornati in un'ottica multiforme, in cui vince il particolare, ma soggetto ad un insieme di stimoli sensoriali non stridenti e ben integrati. Una storia alla "Jules e Jim", in cui l'amore per il medesimo ragazzo vede un'accesa lotta (basata su prospettive errate di partenza) di un giovane e una donna più matura, con i loro "amori mentali", "immaginari", colpisce per grazia e realismo. E il film in molti momenti è un vero saggio dell'amore idealizzato e irreale, dolcissimo. Il cast vede un trittico affiatato unico a dominare la scena: Monia Chokri, Niels Schneider e Xavier Dolan. E su quest'ultimo, sembra che l'Arte abbia trovato una sua precoce rappresentazione terrena.
In molti troveranno "Les Amours imaginaires" un film autoreferenziale e formalista. E non c'è torto in questa osservazione. Per altri, il confronto con il meno preparato Tom Ford, regista del discutibile (e per chi vi scrive ammorbante) "A single man", sembra un obbligo. Patinato, rallentato, pubblicitario. In realtà, non c'è storia. Xavier Dolan, 21 anni, attivo da una vita, presenta a Cannes il suo secondo film da regista (era stato acclamato con "J'ai tué ma mère") e fa il botto, lasciando i suoi concorrenti al palo. E' molto difficile, o meglio improprio, parlare di genialità. Eppure questo folletto canadese è, per molti versi, un piccolo genio. La genialità deriva dalla sua capacità multiforme di curare ogni aspetto della pellicola, dalla recitazione (è un ottimo attore) al montaggio, alla sceneggiatura, al gusto scenico che unisce componente tipicamente artigianale a basso budget ad uno stile ultracitazionista che è una rielaborazione accorta dei modelli passati. In "Les Amours imaginaires" un ruolo importante lo giocano gli abiti, i monili, i contrasti cromatici, il monocromatismo di alcune scene. Il film, a differenza della pellicola di Tom Ford, non mira a ricreare un mondo patinato, ma è l'esaltazione compendiaria di buona parte dell'arte anni '60 e '70 (Audery Hepburn imperat) fino agli anni '30 della scuola Bauhaus, di cui compare un testo (un riferimento è evidente in una sequenza molto intima). Ma non c'è un semplice effetto vintage o di rielaborazione. Dolan non si mostra saccente e prende in giro il concetto stesso di vintage, quando, nel vedere la mise della sua antagonista, sottolinea come non tutto il vintage sia bello da riportare in auge. Ciò che colpisce è la capacità di creare un'amalgama che metta insieme capacità visionaria e sonora, in qualunque forma quest'ultima si espliciti (la soundtrack ha un tono evocativo quanto la recitazione e anche la versione di "Bang Bang" sembra essere nuova e ammaliante grazie ad un uso smaccatamente pubblicitario). Così il ralenty, il sussulto emotivo, il movimento teatrale sono riaggiornati in un'ottica multiforme, in cui vince il particolare, ma soggetto ad un insieme di stimoli sensoriali non stridenti e ben integrati. Una storia alla "Jules e Jim", in cui l'amore per il medesimo ragazzo vede un'accesa lotta (basata su prospettive errate di partenza) di un giovane e una donna più matura, con i loro "amori mentali", "immaginari", colpisce per grazia e realismo. E il film in molti momenti è un vero saggio dell'amore idealizzato e irreale, dolcissimo. Il cast vede un trittico affiatato unico a dominare la scena: Monia Chokri, Niels Schneider e Xavier Dolan. E su quest'ultimo, sembra che l'Arte abbia trovato una sua precoce rappresentazione terrena.
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