Review - Boy




Un piccolo film che è anche un film gigantesco. Se vi occorre un documentario-saggio sulla condizione infantile, spostatevi nel mondo di "Boy", detto anche "Little Shotgun". Non tanto per la conformazione sociale (il film è ambientato in un mondo povero, la Nuova Zelanda del 1984, nei suoi villaggi dimenticati, popolato da grandi inetti e bambini responsabilizzati), quanto per l'immagine pura e la capacità della pellicola nell'affrescare, con tratto stilistico insieme divertente e originale, le reali preoccupazioni e le psicologie dei piccoli del luogo. La mitizzazione, evidente in continue ipercitazioni riguardanti Michael Jackson, all'apice della carriera, la necessità di scimmiottare i grandi, ma la reazione potente alla loro violenza, i sogni ad occhi aperti, gli innamoramenti precoci e non ricambiati, il contatto con gli animali, la fratellanza, l'inesprimibilità, la solitudine, quel senso di dolore e quella filosofia, se così si può definirla, dell'eleborazione del lutto, che, per un bambino, passa fasi amplificate, i superpoteri contro le superingiustizie, l'immaginazione, una stasi continua delle cose, la possibilità del perdono, l'accoglienza, il bullismo, l'ostentazione. Tutto questo in un'ora e venti, con brio. Il film, se osservate bene, è un'amplificazione di malesseri, in superficie grazie ad una sceneggiatura brillante e ricca di speranza. Solo verso la fine, prima di una sequenza must che cita il famoso video di Jackson "Thriller", le sofferenze vengono al pettine. Il lieto fine c'è, ma la violenza, in un primo tempo implicita, arriva a sconquassare con dei piccoli momenti toccanti ed espliciti. Da un momento all'altro vedrete un bimbo piangere e seppellire la propria capra, una sorta di affetto imprenscindibile, rispetto ad una famiglia inesistente, ad una madre sepolta a pochi metri da casa e un padre mai visto prima, ritornato per cercare i suoi soldi. La capacità di Taika Waititi nel tenere sotto controllo entrambi gli elementi, quello divertente in neretto, quello drammatico in sottotesto, conferisce al film una grande commerciabilità e consente una lettura diversificata degli avvenimenti. Non ci sono i mostri di Spike Jonze, ma la desolazione di un mondo reale è più forte, sebbene mascherata da un sorriso e da una speranza. Il film deve la sua carica emozionale ad un trittico di interpreti unico: James Rolleston, Te Aho Aho Eketone-Whitu, i due fantastici bambini, mentre lo stesso regista interpreta una sorta di padre clown-violento, che è quasi impossibilitato a cogliere il vero significato della vita e dei valori. Un film del genere non sarebbe dispiaciuto a Truffaut, ma forse la sua modernità vera sta nel fatto che non sarebbe dispiaciuto a nessuno dei grandi registi del passato, cogliendo insieme un elemento occidentale e uno fortemente locale (un pò come il Tulpan di qualche anno fa), e fondendoli in un percorso narrativo ricchissimo e commuovente.

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