Julian Schnabel, prima di "Miral", nelle sale questo weekend dopo essere passato con scarsi risultati a Venezia, ha realizzato il suo film più riuscito. Un quasi-capolavoro sulla stasi e l'immobilità, sulla morte in vita, ma anche sulla vita che precede la morte, che è ancora vita. Un racconto personale che trascende l'individualità e affida la sofferenza alla poesia, anzi la identifica. Come uno scafandro immobilizzato che aspira a liberarsi nel cielo come una farfalla. Il film è un soliloquio del malato, ed è un contatto tra il malato e lo spettatore. E' l'elaborazione del lutto, ma anche la forza accecante di vita. E' la visione sfumata, e il pensiero che corre, oltre le tende della camera d'ospedale, verso montagne policromatiche e gettiti di fiume.
“Dietro la tenda di tela tramata, un chiarore lattiginoso annuncia l’approssimarsi dell’alba. Ho male ai calcagni, la testa come un’incudine e una sorta di scafandro che mi serra tutto il corpo. Il mio lavoro consiste nel redigere il diario del viaggio immobile di un naufrago arenatosi sulle rive della solitudine.” Le parole vere del vero Bauby (leggete le poche righe, le poche pagine del suo testo, sono intense). Bauby subisce un incidente vascolare che ha danneggiato il tronco celebrale. Unico intento dei medici: prolungare la vita…è questa la vita? Il corpo non risponde minimamente a sé stesso, i muscoli sembrano “lobotomizzati”, l’apparato osseo statico e rigido, i suoni sono divenuti impronunciabili, la voce è un foro interiore che non si esteriorizza, uno spartito fuori nota impronunciabile, un discorso senza voce, un pensiero che si ravvede interiormente, senza potersi spalancare ad un orizzonte comprensivo, un soliloquio interiore. La bocca, il volto hanno subito una deformazione. Le labbra, in particolare, socchiuse scendono come se intorpidite da un freddo così gelido e tagliente che ne accentua l’immobilismo mascellare. I passi in avanti, verso il Miracolo di Lourdes, rinchiuso in neon rossastri di Madonne anche esse mummificate in statue di varie dimensioni dietro la croce di una sofferenza atroce, preludono ad un chiarore nel cangiante umore delle mareggiate, “con la schiuma così bianca che sembra uscita dal reparto effetti speciali”, che gorgogliano irregolari e potrebbero, in una vorticosa tempesta, sradicare il vecchio faro.
“Mi metto sotto la protezione di questo simbolo fraterno, che veglia sui marinai ma anche sui malati, che il destino ha spinto alla deriva ai confini della vita“, dice Bauby. Il tutto alla visione evanescente di un’unica molla di vita, il battito della ciglia dell’occhio sinistro, che diviene la macchina da presa sbilenca e obliqua di Julian Schnabel, visione frantumata, rarefatta, sfocata delle lungaggini che una vita si è decisa di prendere, senza compassione per sé stessi, ma con l’abbraccio ateo e qualunquista di un ritrovamento possibile, di un miglioramento atteso, costretti ad annuire con un battito di ciglia, disapprovare con due movimenti dell’occhio. L’occhio è lì, movibile in tutte le direzioni, ed è un piacere intravedere gambe bianchicce di donne sensuali, nonostante l’immagine, più esso si metta a fuoco meno abbia un effetto veritiero, e la pupilla sgranata e circondata da arteriole e capillari ormai quasi non più irrigati, sembri la ricercatissima ripresa di un regista che nell’occhio e dall’occhio è in grado di far riprodurre e “disegnare” artificiosamente tutte le scene di una pellicola, tramite facoltà: memoria sempre più scarna ed in deterioramento ed immaginazione, che garantiscono al malato ricordi e fanno balenare in lui sogni di nature genuinamente contemplate. Da un palombaro immerso in un mare che goffamente viene scaraventato nel blu più profondo, si leva una farfalla dalle tonalità bellissime, rara e pronta a posarsi su ogni fiore che ricordi i suoi figli, le sue amate, la sua bellezza e fascino (autoironia:“non ero io,era Marlon Brando”), i suoi sogni. E poi il libro, l’alfabeto “a battiti di ciglia”, le visite in clinica, le telefonate, la morte per una polmonite. Schnabel propone una vita a tutti gli effetti, prima che si trasformi in una morte come nuova vita.
“Dietro la tenda di tela tramata, un chiarore lattiginoso annuncia l’approssimarsi dell’alba. Ho male ai calcagni, la testa come un’incudine e una sorta di scafandro che mi serra tutto il corpo. Il mio lavoro consiste nel redigere il diario del viaggio immobile di un naufrago arenatosi sulle rive della solitudine.” Le parole vere del vero Bauby (leggete le poche righe, le poche pagine del suo testo, sono intense). Bauby subisce un incidente vascolare che ha danneggiato il tronco celebrale. Unico intento dei medici: prolungare la vita…è questa la vita? Il corpo non risponde minimamente a sé stesso, i muscoli sembrano “lobotomizzati”, l’apparato osseo statico e rigido, i suoni sono divenuti impronunciabili, la voce è un foro interiore che non si esteriorizza, uno spartito fuori nota impronunciabile, un discorso senza voce, un pensiero che si ravvede interiormente, senza potersi spalancare ad un orizzonte comprensivo, un soliloquio interiore. La bocca, il volto hanno subito una deformazione. Le labbra, in particolare, socchiuse scendono come se intorpidite da un freddo così gelido e tagliente che ne accentua l’immobilismo mascellare. I passi in avanti, verso il Miracolo di Lourdes, rinchiuso in neon rossastri di Madonne anche esse mummificate in statue di varie dimensioni dietro la croce di una sofferenza atroce, preludono ad un chiarore nel cangiante umore delle mareggiate, “con la schiuma così bianca che sembra uscita dal reparto effetti speciali”, che gorgogliano irregolari e potrebbero, in una vorticosa tempesta, sradicare il vecchio faro.
“Mi metto sotto la protezione di questo simbolo fraterno, che veglia sui marinai ma anche sui malati, che il destino ha spinto alla deriva ai confini della vita“, dice Bauby. Il tutto alla visione evanescente di un’unica molla di vita, il battito della ciglia dell’occhio sinistro, che diviene la macchina da presa sbilenca e obliqua di Julian Schnabel, visione frantumata, rarefatta, sfocata delle lungaggini che una vita si è decisa di prendere, senza compassione per sé stessi, ma con l’abbraccio ateo e qualunquista di un ritrovamento possibile, di un miglioramento atteso, costretti ad annuire con un battito di ciglia, disapprovare con due movimenti dell’occhio. L’occhio è lì, movibile in tutte le direzioni, ed è un piacere intravedere gambe bianchicce di donne sensuali, nonostante l’immagine, più esso si metta a fuoco meno abbia un effetto veritiero, e la pupilla sgranata e circondata da arteriole e capillari ormai quasi non più irrigati, sembri la ricercatissima ripresa di un regista che nell’occhio e dall’occhio è in grado di far riprodurre e “disegnare” artificiosamente tutte le scene di una pellicola, tramite facoltà: memoria sempre più scarna ed in deterioramento ed immaginazione, che garantiscono al malato ricordi e fanno balenare in lui sogni di nature genuinamente contemplate. Da un palombaro immerso in un mare che goffamente viene scaraventato nel blu più profondo, si leva una farfalla dalle tonalità bellissime, rara e pronta a posarsi su ogni fiore che ricordi i suoi figli, le sue amate, la sua bellezza e fascino (autoironia:“non ero io,era Marlon Brando”), i suoi sogni. E poi il libro, l’alfabeto “a battiti di ciglia”, le visite in clinica, le telefonate, la morte per una polmonite. Schnabel propone una vita a tutti gli effetti, prima che si trasformi in una morte come nuova vita.
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