Magdalene
Irlanda, Dublino, 1964. Le pagine di un diario di pelle ammuffite ritornano indietro, mosse dal vento, perché una nuova novella inebri l’aria e sia una novella di verità, che suona come un duro pugno allo stomaco, una milza lacerata, a cui far seguire l’indignato disprezzo delle autorità ecclesiastiche. Ciondoli pendolanti di croci svolazzano nella cattolica terra immortale, dove non si finisce mai di piangere, ma si gode della permanenza terrena dilatata, perché ogni croce sia più aguzza, più pungente, perché ogni cilicio sia più stretto, perché ogni candelabro sia più acceso per infondere la nuova e vecchia fiamma della paura dell’inferno. Donne, e già il cattolicesimo marchiava e tuttora definisce seni di competenza, l’estrema colpa di essere tentatrici perché provocanti, e una nuova tipologia di Maddalena, destinata a soccombere dinanzi ai “santi terreni”, a lavare non i piedi, ma i panni, in uno dei conventi “magdalene” istituiti in tutta la culla del cattolicesimo. Pentirsi ed espiare la colpa: di essere madri prima del “santo” matrimonio, di essere inclini alla sessualità, di essere figlie e sorelle indegne, di essere state abusate, di essere minorate mentali. Il film, Leone d’Oro a Venezia, ebbe l’ardire di intromettersi in un sistema organizzativo degli anni passati, sempre taciuto all’esterno della Chiesa ed interno ad essa. E’ un meccanismo di soprusi, di violenza fisica, di un nonnismo malato, che colpisce le donne più deboli, le ragazze, non molto diverso dalle limitazioni alle donne islamiche, votato, e le storie proposte sono veritiere, all’emarginazione della donna-reietto, della donna-peccatrice. “Magdalene” ha la stessa urgenza di “Amen”, il film di Gravas che mirava a definire la totale indifferenza dell’istituzione cattolica di fronte al genocidio ebraico, con una visione in sostanza accurata anche se con qualche distinguo e nodo impossibile, allo stato delle cose, da sciogliere, a livello storico. Ma, a differenza di “Amen”, “Magdalene” ha una resa qualitativa più riuscita, una regia, firmata Peter Mullan più complessa, un’emozione più fredda e una razionalità nel definire precisamente la visione del carnefice e della vittima. Il film è violento e crudele, quasi opprimente. “Il giardino delle Vergini Suicide” della Coppola è un esempio di paragone, portato all’eccesso, con la nudità fisica esposta e ridicolizzata, la dignità umana infranta, la crudeltà dei colpi inferti, la morte in solitudine, il disprezzo, l’internamento, la malattia mentale, l’abuso fisico. Si pensi che l’ultima lavanderia-convento è stata chiusa, nel paese verde, nel 1996, e che la pellicola sia stata duramente contestata dalla Chiesa Cattolica, incapace di fare un Mea Culpa con assunzione di responsabilità. “Magdalene” è, di certo, un film “contro”, che brama giustizia, ma è anche un sincero resoconto su delle donne, la cui vita è stata in un modo o nell’altro scossa e privata di dignità, violentata, da quelle stesse istituzioni che predicavano l’amore universale. E, alla luce degli scandali odierni, è un film che alimenta il disgusto per l’ingiustizia, per il sopruso, per il potere.
Irlanda, Dublino, 1964. Le pagine di un diario di pelle ammuffite ritornano indietro, mosse dal vento, perché una nuova novella inebri l’aria e sia una novella di verità, che suona come un duro pugno allo stomaco, una milza lacerata, a cui far seguire l’indignato disprezzo delle autorità ecclesiastiche. Ciondoli pendolanti di croci svolazzano nella cattolica terra immortale, dove non si finisce mai di piangere, ma si gode della permanenza terrena dilatata, perché ogni croce sia più aguzza, più pungente, perché ogni cilicio sia più stretto, perché ogni candelabro sia più acceso per infondere la nuova e vecchia fiamma della paura dell’inferno. Donne, e già il cattolicesimo marchiava e tuttora definisce seni di competenza, l’estrema colpa di essere tentatrici perché provocanti, e una nuova tipologia di Maddalena, destinata a soccombere dinanzi ai “santi terreni”, a lavare non i piedi, ma i panni, in uno dei conventi “magdalene” istituiti in tutta la culla del cattolicesimo. Pentirsi ed espiare la colpa: di essere madri prima del “santo” matrimonio, di essere inclini alla sessualità, di essere figlie e sorelle indegne, di essere state abusate, di essere minorate mentali. Il film, Leone d’Oro a Venezia, ebbe l’ardire di intromettersi in un sistema organizzativo degli anni passati, sempre taciuto all’esterno della Chiesa ed interno ad essa. E’ un meccanismo di soprusi, di violenza fisica, di un nonnismo malato, che colpisce le donne più deboli, le ragazze, non molto diverso dalle limitazioni alle donne islamiche, votato, e le storie proposte sono veritiere, all’emarginazione della donna-reietto, della donna-peccatrice. “Magdalene” ha la stessa urgenza di “Amen”, il film di Gravas che mirava a definire la totale indifferenza dell’istituzione cattolica di fronte al genocidio ebraico, con una visione in sostanza accurata anche se con qualche distinguo e nodo impossibile, allo stato delle cose, da sciogliere, a livello storico. Ma, a differenza di “Amen”, “Magdalene” ha una resa qualitativa più riuscita, una regia, firmata Peter Mullan più complessa, un’emozione più fredda e una razionalità nel definire precisamente la visione del carnefice e della vittima. Il film è violento e crudele, quasi opprimente. “Il giardino delle Vergini Suicide” della Coppola è un esempio di paragone, portato all’eccesso, con la nudità fisica esposta e ridicolizzata, la dignità umana infranta, la crudeltà dei colpi inferti, la morte in solitudine, il disprezzo, l’internamento, la malattia mentale, l’abuso fisico. Si pensi che l’ultima lavanderia-convento è stata chiusa, nel paese verde, nel 1996, e che la pellicola sia stata duramente contestata dalla Chiesa Cattolica, incapace di fare un Mea Culpa con assunzione di responsabilità. “Magdalene” è, di certo, un film “contro”, che brama giustizia, ma è anche un sincero resoconto su delle donne, la cui vita è stata in un modo o nell’altro scossa e privata di dignità, violentata, da quelle stesse istituzioni che predicavano l’amore universale. E, alla luce degli scandali odierni, è un film che alimenta il disgusto per l’ingiustizia, per il sopruso, per il potere.
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