La nostra Vita

Luchetti è un narratore prima di essere un regista. Quando ci si accinge alla visione di un suo film, si deve partire da questa premessa. E, nel suo narrare, mostra qualcosa che sfugge a molti, sullo schermo e sulla carta. Gioca infatti l'asso dell'umanità. E' un vernacolare, un istintivo, un realista, un popolano. "La nostra vita" è un romanzo popolare o meglio un vero racconto, fitto di storie incalzanti, senza che la concatenazione sia eccedente il minutaggio e la noia. Luchetti fa di Germano il suo attore feticcio. E Germano fa di Luchetti il suo mentore, il suo padre artistico. Non si spiega diversamente la performance dell'attore, che sfiora la perfezione, caricandosi di un'intensità che trascende la semplice resa di singoli sentimenti, ma è data da una sedimentazione del personaggio. Solo un'identificazione prima fisica e poi psicologica avrebbe potuto garantire un risulato del genere, premiato cum laude a Cannes e vero spartiacque nella carriera di un attore completo/complesso. E' veramente ammirevole il lavoro sul personaggio, mai sovraccaricato, mai eccessivo, mai minimalista, ma popolano e reale, come il film. Luchetti offre anche di più. Si permette di parlare di amore e morte, di difficoltà finanziarie, di bambini, di partite di droga, di famiglia, senza un minimo cedimento. E le poche lacrime di Germano sono toccanti e deflagranti. Ancora, la camera da presa non propone clichè, nè ammicca alla tipicità italiana da fiction. Tecnicamente, lo stile, anche spoglio, è più vicino ai modelli europei. Infine, mi preme ricordare un bravo Luca Zingaretti, con un personaggio rischioso e la "madrina" italiana Isabella Ragonese, che in metà film, regala un'intensità insieme regale e reale. Un film che, affiancato a " La prima cosa bella" e, in parte a "L'uomo che verrà" rappresenta un patrimonio cinematografico da tenere sotto occhio ed esportare, lasciando i Muccino e gli Ozpetek nella loro comoda posizione di "uomini da incasso".

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