Il cinema ha interpretato in chiave piuttosto tradizionale il fatto di portata storica che colpì la città di New York e l'America tutta nel 2001. A differenza di docu-fiction, nate sulla base di esigenze diverse, e diffuse capillarmente tramite mass media immediati come la televisione o il web, che hanno rappresentato la traccia più controversa degli avvenimenti, aderendo a teorie complottiste, oppure legate a linee interpretive diverse dalla posizione complessa, ma pur sempre unilaterale, del blocco occidentale, il cinema solo in pochi casi ha mostrato il coraggio di una visione globale. Ed è tornato a far leva sul pubblico, un genere, il documentario, che offre una soluzione a tesi del fatto, quasi come se fosse un asciutto testo storico. Ma la storia la si scrive solo con il tempo, ed entrambe le posizioni, quella vicina al modello complottista, e quella filo-governativa, hanno degli evidenti margine di errore. Il pericolo è che l'arte, così come la falsificazione della politica, nella nuova era di massa, stia subendo una visione parziaria di un fenomeno storico complesso e diversificato. Il riduzionismo storiografico e il documentario ad effetto possono compromettere una lettura adeguata. Se consideriamo i film che hanno attraversato le varie fasi storiche del nostro mondo recente, siamo portati da una parte a vedere il cinema vero nella non sudditanza ad una forma di potere crudele (come può essere quello nazista) con i suoi prodotti di "condizionamento delle masse", di cinaesti "compromessi", ma nello svincolarsi da quella sudditanza. Dall'altra, i veri capolavori del periodo non sono film politici o di esegesi storiografica, bensì di "attraversamento" del contesto sociale. Il neorealismo entra nella storia del cinema perchè presenta i residui del vecchio mondo fascista in ottica emotiva, ed enfatizza il ruolo delle persone-attori vicini al mondo reale, e non frutto di elocubrazioni mentali artefatte e di complesse analisi sulle motivazioni del conflitto. Un cinema del genere, anche se motivato da intenti nobili, sfocia spesso nell'ideologia e cade nel tranello di una rappresentazione limitante/limitativa della realtà, in buona o cattiva fede. I documentari sull'11 Settembre avrebbero avuto senso, solo dopo l'esaurirsi del fenomeno storico e il suo disvelamento accertato. Penso a Michael Moore, che, nel suo "Fahrenheit 9/11" ricostruì un'analisi piuttosto discutibile della realtà. Più che altro il suo documentario non è un'analisi con perizia scientifica di fonti certe e acceditate dalla pubblica opinione, è, per altri versi, un attacco, sicuramente giustificato su un piano politico, molto meno nel tono inquisitorio, a George W. Bush. Moore, perciò, è il "grilletto" che spara a zero, non il documentarista a tutto tondo. Non solo inquadra una singola porzione di "realtà", ma arriva a non immettere nessuna argomentazione logica che sia al di fuori di quella "realtà". In questo senso, il suo film, pur avendo una costruzione a tesi interessante e una buona riuscita tecnica, non è molto diverso da quei proclami razziali che venivano promulgati nelle pellicole dei paesi fascisti. Il problema è che Moore cerca la coerenza di pensiero a tutti i costi e lascia perdere la credibilità certa, a favore dell'incasso. Non a caso, questo è il suo vero grande successo al botteghino mondiale, complice anche una Palma d'oro altrettanto ideologica (ricordate la posizione della Francia?). Diverso il caso di "Road to Guantanamo" e di "Taxi to the dark side", ottimi prodotti artistici che uniscono la sapienza della denuncia a dei criteri di umanità non parziali, ma condivisi. E così che le loro immagini diventano un j'accuse universale rivolto verso chi è chiamato a compiere giustizia e supera ogni limite di dignità umana. In questo caso, la scelta dei protagonisti, dei temi, la denuncia spietata non solo è pertinente e universale in potenza, ma addirittura esempio di cinema di qualità indiscussa e di lettura storiografica accorta.
Il cinema post-11 Settembre segue una strada ancora poco riuscita, quando, a distanza di un anno dall'evento, esce in sala 11'09''01, un film ad episodi legati all'avvenimento. In questo caso le motivazioni politiche sono limitate, emerge con forza l'intento "poetico" dell'opera, contaminato da analisi personali di registi troppo spesso ideologici, e si configura come un lungo intercorrere di quadri narrativi troppo dissonanti tra loro. Mettere insieme cinema tanto diversi, nonostante l'elemento di affiliazione dell'intera comunità civile mondiale, è un rischio e il risultato è disomogeneo, ma soprattutto risibile in certi punti, da sfiorare il paradosso e far emergere l'inconsistenza dei brani proposti. Qualche frammento è molto buono, ma seguito da qualche altro pessimo.
Prima di affrontare l'ambito autoriale-narrativo, forse il miglior prodotto appartiene a quel misto di stile documentaristico-drammatico che vede un Paul Greengrass in piena forma ricostruire uno degli eventi meno noti di quel giorno. Ovvero lo schianto di un aereo dirottato, che avrebbe dovuto colpire un obiettivo importante (la White House), in Pennsylvania, grazie al coraggio dei passeggeri che riuscirono a ribellarsi, consapevoli della loro fine imminente. E' un film claustrofobico, veloce, televisivo (tanto che mi pare di aver intravisto molti collegamenti con una fiction, trasmessa qualche anno fa, dalla "Storia siamo noi"), in cui ogni cosa è narrata con precisione cronometrica e attendibilità e in cui la sceneggiatura è solo un modello di ricostruzione (anche emotiva), ma non di posizione politica. Notevole.
I registi più inclini ad una narrazione "emotiva" sono finora stati Mike Binder con il buon "Reign over me", direttamente legato alla perdita, con Sandler intenso e Don Cheadle ottima spalla, James C. Strouse che ha tracciato un profilo famigliare non direttamente successivo all'evento, ma comunque vicino ad un fatto (la guerra in Iraq) scaturito dall'evento, in "Grace is gone", oltre ad Oliver Stone, che insieme ad un ritratto non troppo riuscito del presiedente Bush in "W.", ha fallato con gli eroi di "World Trade Center", cadendo più volte in una retorica che non proviene dal suo bagaglio. Molto superiore la storia di Paul Haggis, "Nella valle di Elah", che unisce riflessione personale, dramma di un padre, indagine e politica e vanta interpreti d'eccellenza al loro meglio. Tommy Lee Jones è superbo. Ancora, seppur con dei limiti, in quanto più votato ad una dimensione privata (non a caso rispetto all'originale cambia anche la collocazione di guerra), "Brothers", di Jim Sheridan, con un buon cast, e una storia forte non sviluppata a dovere, remake del film di Susanne Bier.
Ibrida è la connotazione di "The visitor" del 2007, meno incline al patetismo, e più vicino al filone di "fobia dello straniero", successivo all'attacco, che ha riguardato molti Americani musulmani e/o di colore e immigrati nel mondo occidentale. "L'ospite inatteso", con Richard Jerkins a padroneggiare la scena, è un raccordo fondamentale per il superamento delle differenze e la vicinanza dei popoli, o meglio, delle persone.
Un dittico politico è rappresentato dalle lunghe, quasi estenuanti, dissertazioni di due autori molto politicizzati, Robert Redford e Win Wenders. Il primo esprime una plurità di punti di vista, che cade nella retorica, sulla democrazia statunitense, affianacato da un Tom Cruise senatore-repubblicano, e da una Meryl Streep accanita giornalista democratica. Dalla massima "Leoni per Agnelli" all'insegnamento della Costituzione, il passo è facile. Diverso il caso di Wenders che vede, in un'inattendibile dialettica, confrontarsi una ragazza emancipata (Michelle Williams), con lo zio reduce dal Vietnam, poco tempo dopo l'evento traumatico, con posizioni divergenti e lontane.
L'11 Settembre, per chi vi scrive, è difficilmente rappresentabile in grande scala e con proprietà di toni. Non è la vicinanza storica il problema vero e proprio, quanto l'incapacità di guardare a quell'evento come un capitolo chiuso. Forse non lo è, e nei cuori di qualche intollerante continua a non esserlo. Sullo schermo, meglio vederlo in sottofondo, come nella "25 Ora" di Spike Lee, in cui l'individualismo di un uomo condannato al carcere è circondato dai cambiamenti del mondo che sta per abbandonare.
Il cinema post-11 Settembre segue una strada ancora poco riuscita, quando, a distanza di un anno dall'evento, esce in sala 11'09''01, un film ad episodi legati all'avvenimento. In questo caso le motivazioni politiche sono limitate, emerge con forza l'intento "poetico" dell'opera, contaminato da analisi personali di registi troppo spesso ideologici, e si configura come un lungo intercorrere di quadri narrativi troppo dissonanti tra loro. Mettere insieme cinema tanto diversi, nonostante l'elemento di affiliazione dell'intera comunità civile mondiale, è un rischio e il risultato è disomogeneo, ma soprattutto risibile in certi punti, da sfiorare il paradosso e far emergere l'inconsistenza dei brani proposti. Qualche frammento è molto buono, ma seguito da qualche altro pessimo.
Prima di affrontare l'ambito autoriale-narrativo, forse il miglior prodotto appartiene a quel misto di stile documentaristico-drammatico che vede un Paul Greengrass in piena forma ricostruire uno degli eventi meno noti di quel giorno. Ovvero lo schianto di un aereo dirottato, che avrebbe dovuto colpire un obiettivo importante (la White House), in Pennsylvania, grazie al coraggio dei passeggeri che riuscirono a ribellarsi, consapevoli della loro fine imminente. E' un film claustrofobico, veloce, televisivo (tanto che mi pare di aver intravisto molti collegamenti con una fiction, trasmessa qualche anno fa, dalla "Storia siamo noi"), in cui ogni cosa è narrata con precisione cronometrica e attendibilità e in cui la sceneggiatura è solo un modello di ricostruzione (anche emotiva), ma non di posizione politica. Notevole.
I registi più inclini ad una narrazione "emotiva" sono finora stati Mike Binder con il buon "Reign over me", direttamente legato alla perdita, con Sandler intenso e Don Cheadle ottima spalla, James C. Strouse che ha tracciato un profilo famigliare non direttamente successivo all'evento, ma comunque vicino ad un fatto (la guerra in Iraq) scaturito dall'evento, in "Grace is gone", oltre ad Oliver Stone, che insieme ad un ritratto non troppo riuscito del presiedente Bush in "W.", ha fallato con gli eroi di "World Trade Center", cadendo più volte in una retorica che non proviene dal suo bagaglio. Molto superiore la storia di Paul Haggis, "Nella valle di Elah", che unisce riflessione personale, dramma di un padre, indagine e politica e vanta interpreti d'eccellenza al loro meglio. Tommy Lee Jones è superbo. Ancora, seppur con dei limiti, in quanto più votato ad una dimensione privata (non a caso rispetto all'originale cambia anche la collocazione di guerra), "Brothers", di Jim Sheridan, con un buon cast, e una storia forte non sviluppata a dovere, remake del film di Susanne Bier.
Ibrida è la connotazione di "The visitor" del 2007, meno incline al patetismo, e più vicino al filone di "fobia dello straniero", successivo all'attacco, che ha riguardato molti Americani musulmani e/o di colore e immigrati nel mondo occidentale. "L'ospite inatteso", con Richard Jerkins a padroneggiare la scena, è un raccordo fondamentale per il superamento delle differenze e la vicinanza dei popoli, o meglio, delle persone.
Un dittico politico è rappresentato dalle lunghe, quasi estenuanti, dissertazioni di due autori molto politicizzati, Robert Redford e Win Wenders. Il primo esprime una plurità di punti di vista, che cade nella retorica, sulla democrazia statunitense, affianacato da un Tom Cruise senatore-repubblicano, e da una Meryl Streep accanita giornalista democratica. Dalla massima "Leoni per Agnelli" all'insegnamento della Costituzione, il passo è facile. Diverso il caso di Wenders che vede, in un'inattendibile dialettica, confrontarsi una ragazza emancipata (Michelle Williams), con lo zio reduce dal Vietnam, poco tempo dopo l'evento traumatico, con posizioni divergenti e lontane.
L'11 Settembre, per chi vi scrive, è difficilmente rappresentabile in grande scala e con proprietà di toni. Non è la vicinanza storica il problema vero e proprio, quanto l'incapacità di guardare a quell'evento come un capitolo chiuso. Forse non lo è, e nei cuori di qualche intollerante continua a non esserlo. Sullo schermo, meglio vederlo in sottofondo, come nella "25 Ora" di Spike Lee, in cui l'individualismo di un uomo condannato al carcere è circondato dai cambiamenti del mondo che sta per abbandonare.
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