Un fiume di ghiaccio, una lastra d’acqua su cui camminare. Le nuvole si frantumano in mille pulviscoli bianchi, si intravede un piccolo lembo di cielo blu. Ma è subito sera. E l’intera distesa, la riversa dei Mohawk, le case povere dello Stato di New York, ai limiti del confine con il Canada, la bisca di giocatori incalliti ed il pub di uomini d’alcool riempiti, sono in perenne isolamento. La demografia è complessa, non per l’eccessiva estensione, quanto per il sipario di incomunicabilità che separano una roulotte, l'unica nella riserva ed un prefabbricato azzurro, annerito dal tempo e dal gettito di una fiamma ossidrica. Le case sono circondate, spesso, da una coltre di neve e rischiano, nella loro umiltà, sporcizia, mancanza di ordine, di assomigliare a dei luoghi di derelitti, di gente perduta, dimenticata. Il film, complice l’ottima sceneggiatura di Courtney Hurt, anche regista, parte da una situazione di emarginazione sociale, dipendente da motivazioni assistenziali, economiche (scarsa disponibilità di reddito famigliare), poi procede nella disintegrazione di un sistema patriarcale ( gli uomini sono, per lo più assenti, un marito è morto, un altro è scappato, ma non c’è alcuna traccia di un femminismo spietato e calcolato, come si evince dalla grande responsabilità umana di un ragazzo quindicenne), ed infine analizza la prospettiva, abusata nella tematica, in questo caso, invece, più che originale, dell’immigrazione e del razzismo. Non siamo in Messico, ma il travaso di clandestini, collegato a forme di mafia, ha una sua logica applicazione: un auto con portatagli, un pulsante nel sistema centrale, un numero di soldi fisso, una stessa traettoria, che sfida la dimensione naturale. La traversata sul fiume comincia. Ray ha uno sguardo stanco, la pelle cadente, numerose rughe che non sono più d’espressione, lavora in un supermarket di prodotti a basso prezzo, guadagna poco e male. Lila ha i capelli cortissimi, è ancora giovane, lavora al bingo, ma non vede bene, anzi vede malissimo. Vive in una roulotte e guarda da lontano il suo bambino, di appena un anno, preso alla nascita dalla suocera e non restituito. Subisce le conseguenze del suo passato, del contrabbando, di sigarette, una volta, oggi di carne umane, di forza lavoro cinese o iraniana. Le storie sono simili, c’è una forma di attenuato razzismo da entrambe le parti, eloquente in alcune affermazioni. La cosa che più colpisce, oltre alle ottime interpretazioni (Melissa Leo grandiosa, nominata agli Oscar) e all’ambientazione, con un gioco di luce inusuale ed un movimento spaziale tanto ripetitivo quanto affascinante, è la perfetta aderenza dei personaggi alla realtà, senza smussare i loro caratteri, senza precise catalogazioni a priori. E così che la donna bianca porta la pistola, e non la mohawk. E così che un ritratto femminile si trasforma in un film angosciante. Non c'è nessun elemento da thriller classico, eppure l'atmosfera è permeata da un mistero tetro e continuo, opprimente. E' cinema indie, ed è sopratutto piccolo grande cinema.
Un fiume di ghiaccio, una lastra d’acqua su cui camminare. Le nuvole si frantumano in mille pulviscoli bianchi, si intravede un piccolo lembo di cielo blu. Ma è subito sera. E l’intera distesa, la riversa dei Mohawk, le case povere dello Stato di New York, ai limiti del confine con il Canada, la bisca di giocatori incalliti ed il pub di uomini d’alcool riempiti, sono in perenne isolamento. La demografia è complessa, non per l’eccessiva estensione, quanto per il sipario di incomunicabilità che separano una roulotte, l'unica nella riserva ed un prefabbricato azzurro, annerito dal tempo e dal gettito di una fiamma ossidrica. Le case sono circondate, spesso, da una coltre di neve e rischiano, nella loro umiltà, sporcizia, mancanza di ordine, di assomigliare a dei luoghi di derelitti, di gente perduta, dimenticata. Il film, complice l’ottima sceneggiatura di Courtney Hurt, anche regista, parte da una situazione di emarginazione sociale, dipendente da motivazioni assistenziali, economiche (scarsa disponibilità di reddito famigliare), poi procede nella disintegrazione di un sistema patriarcale ( gli uomini sono, per lo più assenti, un marito è morto, un altro è scappato, ma non c’è alcuna traccia di un femminismo spietato e calcolato, come si evince dalla grande responsabilità umana di un ragazzo quindicenne), ed infine analizza la prospettiva, abusata nella tematica, in questo caso, invece, più che originale, dell’immigrazione e del razzismo. Non siamo in Messico, ma il travaso di clandestini, collegato a forme di mafia, ha una sua logica applicazione: un auto con portatagli, un pulsante nel sistema centrale, un numero di soldi fisso, una stessa traettoria, che sfida la dimensione naturale. La traversata sul fiume comincia. Ray ha uno sguardo stanco, la pelle cadente, numerose rughe che non sono più d’espressione, lavora in un supermarket di prodotti a basso prezzo, guadagna poco e male. Lila ha i capelli cortissimi, è ancora giovane, lavora al bingo, ma non vede bene, anzi vede malissimo. Vive in una roulotte e guarda da lontano il suo bambino, di appena un anno, preso alla nascita dalla suocera e non restituito. Subisce le conseguenze del suo passato, del contrabbando, di sigarette, una volta, oggi di carne umane, di forza lavoro cinese o iraniana. Le storie sono simili, c’è una forma di attenuato razzismo da entrambe le parti, eloquente in alcune affermazioni. La cosa che più colpisce, oltre alle ottime interpretazioni (Melissa Leo grandiosa, nominata agli Oscar) e all’ambientazione, con un gioco di luce inusuale ed un movimento spaziale tanto ripetitivo quanto affascinante, è la perfetta aderenza dei personaggi alla realtà, senza smussare i loro caratteri, senza precise catalogazioni a priori. E così che la donna bianca porta la pistola, e non la mohawk. E così che un ritratto femminile si trasforma in un film angosciante. Non c'è nessun elemento da thriller classico, eppure l'atmosfera è permeata da un mistero tetro e continuo, opprimente. E' cinema indie, ed è sopratutto piccolo grande cinema.
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