Montaldo di Castro sprizza l’aria fresa e sottile che riempie d’ossigeno cuore e polmone, Roma non ronfa mai, e d’aria annerita gonfia polmone e cuore. L’eterno dualismo tra città e campagna, tra provincia e metropoli viene centrato dal bravo incantatore Virzì, maestro della commedia italiana. Roma brulica di colori, di quartieri, di pariolini e di mezze seghe, di scuole diroccate, di centri commerciali da shopping selvaggio, di locali frequentati, di manifestazioni, di slogan, di manifesti politici. E’ un mondo diviso in due. C’è chi è della Lazio, chi della Roma, c’è il fascio e il comunista, chi sta al potere (un bravo Amendola nella parte di un fascista attualizzata che non sopporta più saluto romano in pubblico e vuole avere un certo credito culturale), chi all’opposizione, chi vota per quello, chi vota per quello. A Roma sei identificato con un gruppo, eterogeneo magari. Montaldo è il lento da jukebox, risente di atmosfere felliniane (lo scrisse Kezich, lo ricalco), Roma è un can can su ritmi da m2o. Il film è un racconto di formazione che prende la strada del dualismo. Caterina è pura, ha i capelli lisci, sottili come fili di fieno, gli occhi acerbi, ma espressivi. Indossa vestiti di provincia, ricorda la corale polifonica del suo vecchio paese, vuole cantare classici del classico. Ha le cuffie giganti ed è una piccola maestra che ha un moto di eccitazione naturale, un’enfasi che stordisce, quando canta e ascolta, perdendosi nei sogni di giovanissima. Montaldo è la quiete, Roma è la tempesta. La classe è divisa in due blocchi: ci sono piccole popstars da una parte, premature in tutto, compreso nel sesso, abbellite da orpelli di gran prezzo e poca classe, e ci sono piccoli politicanti di ideologia dall’altra, comunisti, kefiah attorno al collo, vestiti scuri, rigorosamente da mercatino, la maglia del Che, e Mark Twain che imperversa. Montaldo è il cuginetto fuoriforma che parla di cibo, Roma è il girotondo con Benigni, o il festino nella villa del nuovo (o copiato?) Alemanno. Caterina va in città e assapora il nuovo. Il vecchio fa capolino, nelle nevrosi dei suoi genitori, tra un Castelletto che crede in un monopolio che gestisce, da cupola, l’intero mondo che conta, alla bravissima (David di Donatello) Margherita Buy, donna semplice, vittimizzata dal marito che si crede a sua volta vittima del mondo. E’ una soap opera, come osserva il ragazzo australiano che osserva tutto dalla finestra oltre il cortile di cemento. E’ aspro Virzì, come sempre, ancor di più del solito, nonostante il lieto fine. Roma capitale diventa tram tram, bruttura, ma anche occasione di crescita con qualche scorcio, su un colle al Testaccio, di poesia. Caterina sogna di far vibrare la sua voce in un disegno collettivo, di un coro che sappia esaltare Mozart come si deve. Sorride, senza perdere sé stessa, mentre la camera le si avvicina.
Montaldo di Castro sprizza l’aria fresa e sottile che riempie d’ossigeno cuore e polmone, Roma non ronfa mai, e d’aria annerita gonfia polmone e cuore. L’eterno dualismo tra città e campagna, tra provincia e metropoli viene centrato dal bravo incantatore Virzì, maestro della commedia italiana. Roma brulica di colori, di quartieri, di pariolini e di mezze seghe, di scuole diroccate, di centri commerciali da shopping selvaggio, di locali frequentati, di manifestazioni, di slogan, di manifesti politici. E’ un mondo diviso in due. C’è chi è della Lazio, chi della Roma, c’è il fascio e il comunista, chi sta al potere (un bravo Amendola nella parte di un fascista attualizzata che non sopporta più saluto romano in pubblico e vuole avere un certo credito culturale), chi all’opposizione, chi vota per quello, chi vota per quello. A Roma sei identificato con un gruppo, eterogeneo magari. Montaldo è il lento da jukebox, risente di atmosfere felliniane (lo scrisse Kezich, lo ricalco), Roma è un can can su ritmi da m2o. Il film è un racconto di formazione che prende la strada del dualismo. Caterina è pura, ha i capelli lisci, sottili come fili di fieno, gli occhi acerbi, ma espressivi. Indossa vestiti di provincia, ricorda la corale polifonica del suo vecchio paese, vuole cantare classici del classico. Ha le cuffie giganti ed è una piccola maestra che ha un moto di eccitazione naturale, un’enfasi che stordisce, quando canta e ascolta, perdendosi nei sogni di giovanissima. Montaldo è la quiete, Roma è la tempesta. La classe è divisa in due blocchi: ci sono piccole popstars da una parte, premature in tutto, compreso nel sesso, abbellite da orpelli di gran prezzo e poca classe, e ci sono piccoli politicanti di ideologia dall’altra, comunisti, kefiah attorno al collo, vestiti scuri, rigorosamente da mercatino, la maglia del Che, e Mark Twain che imperversa. Montaldo è il cuginetto fuoriforma che parla di cibo, Roma è il girotondo con Benigni, o il festino nella villa del nuovo (o copiato?) Alemanno. Caterina va in città e assapora il nuovo. Il vecchio fa capolino, nelle nevrosi dei suoi genitori, tra un Castelletto che crede in un monopolio che gestisce, da cupola, l’intero mondo che conta, alla bravissima (David di Donatello) Margherita Buy, donna semplice, vittimizzata dal marito che si crede a sua volta vittima del mondo. E’ una soap opera, come osserva il ragazzo australiano che osserva tutto dalla finestra oltre il cortile di cemento. E’ aspro Virzì, come sempre, ancor di più del solito, nonostante il lieto fine. Roma capitale diventa tram tram, bruttura, ma anche occasione di crescita con qualche scorcio, su un colle al Testaccio, di poesia. Caterina sogna di far vibrare la sua voce in un disegno collettivo, di un coro che sappia esaltare Mozart come si deve. Sorride, senza perdere sé stessa, mentre la camera le si avvicina.
Commenti
è un gran figo l'australiano
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