Gran Torino
Clint, il nonno Clint, il vecchio Clint. Superata la boa degli ottanta con la facilità di un frugoletto, icona vivente di una cultura americana passatista, di ideali repubblicani radicati ma non ferrei, polemici e nazionalisti nel senso più accorato e meno estremista della parola, Clint ha diretto due film, di grande impatto emozionale, girati con una discreta perizia tecnica, non la più marcata, né zelante, pedante, ma neanche troppo cerebrale, immersi nella storia di una vita di speranze vacue, di calci composti, di pugni a sé stessi ( come aveva fatto la donna pugile, con un gancio destro alla sua vita), di ricerche infinite, come è stato il percorso di Christine, dalla terra senza pace all’impavido nembo. Gran Torino è più ruffiano di “Changeling”, più “sui tempi”, meno opprimente. Eppure non si può scindere da esso. Non c’è il peso di una storia dimenticata, di una giustizia che deve essere resa ad una figura realmente esistita. In realtà, Walt Kolawski, se è possibile, è più rappresentativo, sincero, immediato, di una madre che non si rassegna. Sembra paradossale, ma, si può dire che il worker della Ford in pensione, ex-soldato della guerra coreana, tuttofare, sguardo arcigno, atteggiamento burbero, toni da uomo di borgata e non da “femminuccia”, fucile tra le mani e passione per la Gran Torino sportiva del 1972, sigaretta in mano ed accendino cromato, polo smanicata, birra Bud, rudezza di vecchi confini di proprietà, che sembrano separare gli altri da un’interiorità nascosta, timidezza apparente, parolacce ed imprecazioni, non esca da un film, da una scrittura, da un’interpretazione, ma sia un vicino di casa, un parente matusalemme, un pittoresco personaggio non integrato in un sistema di finte buone maniere e sguardo disinteressato, il tipico veterano che racconta le sue gesta dal barbiere. Walt è un veterano e va, saltuariamente, da quell’ “italiano” del barbiere, vive tra irlandesi, polacchi come lui, e qualche sporadico “coglione di colore” (sue parole), con la moglie ed un cane coccolato senza smancerie. Per parte della sua vita. Poi il quartiere si anima di “musi gialli”, la moglie muore, i figli scompaiono, i nipoti si mostrano interessati al mobilio di casa, in caso di futura, certa e quasi attesa morte. Clint distrugge, con grande precisione, come al solito, il modello famigliare genetico. Non è un veterano di una guerra pulita ( e quale guerra lo è?), ma di un’esperienza snervante, stringente, nefasta, di crimini orribili, di gesta mancate, di immagini impresse. Non è una guerra che si può raccontare, ma si rivive costantemente, fino alla morte, mentre il resto delle cose scorre, senza partecipazione, con il solo senso di mantenere quei pochi pregiudizi razziali che consentono di impegnare la mente. Come con Christine Collins, c’è un passaggio dal particolare all’universale, dal personaggio esistito o immaginario alla critica sociale. Se in quel caso dominava la corruzione, in questo, si erge un mondo violento, di gang, di posizioni sociali immodificabili, di rapporti deviati, di strade perdute, sporche, in cui il rispetto verso l’altro non è più peculiare delle nuove generazioni, e non c’è uno spirito di sacrificio. Dall’universale si passa nuovamente al particolare, quando si ammette la possibilità di derogare a tali generalizzazioni. Thao è un ragazzo hmong, di una discendenza di neo-americani, giunti in Michigan dopo il collaborazionismo con la Cia, timido, imberbe, debole, Sue è più grande, sua sorella, spigliata, aperta. Saranno la sua nuova famiglia. E l’elemento feticista (l’ossessione per la Gran Torino) passerà in secondo piano. Umano, compatto, grande. Uno dei film più belli del 2009. E le critiche americane rivolte all'ultimo Clint prima di "Invictus", in genere, sono, parole mie, sono "coglionate senza sennos e senso".
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