Prima sequenza: un barbershop di periferia, un attimo e un rasoio con manico d’osso sbrodola di sangue il calunniatore con getti voluminosi e una densità senza paragoni, fiumiciattolo sanguigno e truculento. Seconda sequenza: una ragazza eroinomane, prostituta, stuprata, ancora bambina, con un diario narrativo denso di spunti e di racconti aberranti, subisce un distacco placentare. Terza sequenza: la madre finisce di vivere; il bimbo, vivo, imputridito di gelatinoso liquido amniotico, come in un sacco, immagine cruda e, contemporaneamente (nella duplicità filmica), effige della vita che continua. Il regista più claustrofobico, lividastro, amante delle trasformazioni simbiotiche e ricercatore di paradisi infernali ed impregnati, ritratto di un “gangster movie”(definizione quantomai impropria per un autore che reinventa i generi canonici, li rivitalizza e li ridisegna con un fare pittorico di colori dominanti, in questo caso, tendenti al nero e al rosso vinaccia, o rosso inglese, imbrigliato in un’atmosfera che scurisce, fatta di gessati neri, ristoranti dalle lumi basse, ospedali bluastri). In una Londra suburbana, si ritraggono i vizi, i crimini, le impurità, di uomini che sono tali solo in quanto ricoperti da tatuaggi realizzati in prigione e che non sono semplice metafora, ma speculare raffigurazione delle qualità e della”specialità” di un uomo; vivono tra bagordi e pederasti club priveè, giurano in un contesto in cui la Famiglia assume significato percettibilmente legato al modo di agire mafioso (il padre salva il figlio), uccidono, mozzando dita e provocano test di mascolinità, talvolta peccano di ingenuità e non sono in grado di seguire con dovizia il passo dei propri avi ( Vincent Cassel, abilissimo a incarnare la figura del figlio inetto, autore bambinesco di grandi mostruosità, ma, in realtà, non in grado di delitti obbrobriosi). Il film, che nella descrizione del ghetto inglese ricorda molto il meno riuscito “Piccoli affari sporchi” di Stephen Frears e che presenta il medesimo script dello sceneggiatore (Steve Knight) si immette su una duplicità che è antitetica alla precedente pellicola di Cronenberg. Qui il personaggio interpretato magistralmente da Viggo Mortensen ( che riassume appieno il modo di codificare un film, seguendo lo stile del regista più controverso, capace di trovare un successo commerciale e di pubblico non indifferente), sghignazza da un’immagine gelida, spietata, dagli occhi che, in fondo in fondo, non riescono a portare il peso di una mancanza assoluta di virtù; comincia un percorso che, pian piano, atteggiamento dopo atteggiamento, porta ad una fantomatica e graduale rilettura del suo comportamento. Altra sottostoria, quella relativa all’interprete Naomi Watts, sempre bravissima, quest'anno la vera eroina del cinema a quanto pare, con "Fair game" e "Mother and Child" Il male deve essere sconfitto, anche con il male. Esplica il malessere trasformista, sottolineando sfumature di duplicità. Un film da vedere.
Prima sequenza: un barbershop di periferia, un attimo e un rasoio con manico d’osso sbrodola di sangue il calunniatore con getti voluminosi e una densità senza paragoni, fiumiciattolo sanguigno e truculento. Seconda sequenza: una ragazza eroinomane, prostituta, stuprata, ancora bambina, con un diario narrativo denso di spunti e di racconti aberranti, subisce un distacco placentare. Terza sequenza: la madre finisce di vivere; il bimbo, vivo, imputridito di gelatinoso liquido amniotico, come in un sacco, immagine cruda e, contemporaneamente (nella duplicità filmica), effige della vita che continua. Il regista più claustrofobico, lividastro, amante delle trasformazioni simbiotiche e ricercatore di paradisi infernali ed impregnati, ritratto di un “gangster movie”(definizione quantomai impropria per un autore che reinventa i generi canonici, li rivitalizza e li ridisegna con un fare pittorico di colori dominanti, in questo caso, tendenti al nero e al rosso vinaccia, o rosso inglese, imbrigliato in un’atmosfera che scurisce, fatta di gessati neri, ristoranti dalle lumi basse, ospedali bluastri). In una Londra suburbana, si ritraggono i vizi, i crimini, le impurità, di uomini che sono tali solo in quanto ricoperti da tatuaggi realizzati in prigione e che non sono semplice metafora, ma speculare raffigurazione delle qualità e della”specialità” di un uomo; vivono tra bagordi e pederasti club priveè, giurano in un contesto in cui la Famiglia assume significato percettibilmente legato al modo di agire mafioso (il padre salva il figlio), uccidono, mozzando dita e provocano test di mascolinità, talvolta peccano di ingenuità e non sono in grado di seguire con dovizia il passo dei propri avi ( Vincent Cassel, abilissimo a incarnare la figura del figlio inetto, autore bambinesco di grandi mostruosità, ma, in realtà, non in grado di delitti obbrobriosi). Il film, che nella descrizione del ghetto inglese ricorda molto il meno riuscito “Piccoli affari sporchi” di Stephen Frears e che presenta il medesimo script dello sceneggiatore (Steve Knight) si immette su una duplicità che è antitetica alla precedente pellicola di Cronenberg. Qui il personaggio interpretato magistralmente da Viggo Mortensen ( che riassume appieno il modo di codificare un film, seguendo lo stile del regista più controverso, capace di trovare un successo commerciale e di pubblico non indifferente), sghignazza da un’immagine gelida, spietata, dagli occhi che, in fondo in fondo, non riescono a portare il peso di una mancanza assoluta di virtù; comincia un percorso che, pian piano, atteggiamento dopo atteggiamento, porta ad una fantomatica e graduale rilettura del suo comportamento. Altra sottostoria, quella relativa all’interprete Naomi Watts, sempre bravissima, quest'anno la vera eroina del cinema a quanto pare, con "Fair game" e "Mother and Child" Il male deve essere sconfitto, anche con il male. Esplica il malessere trasformista, sottolineando sfumature di duplicità. Un film da vedere.
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