Lo stato del pezzo. Pochi minuti prima di andare in stampa, pochi attimi per mettere nero su bianco, o bianco su nero, pochi attimi prima di rodersi il fegato per l’errore o l’errata identificazione, per il tardo arrivo del pony-express di notizie, per la fonte che si sottrae, come un segugio che fiuta un vento zeppo di guai. Giornalismo d’inchiesta, di frammenti da cui affiora un puzzle, di evidenze giuridiche che non confermano la verità dei fatti, di mastini politici alle calcagna, di fotografie, di fascicoli, di telefonini, di casi che si legano, di bossoli invisibili, di mani che si muovono nell’ombra, di ingiurie rivoltose, di condizionamenti editoriali, di lavate di testa. Il giornalismo della cimice, che ronza attorno a tutto e arriva a scorgere tutto, ma anche il giornalismo dello sciacallo, di quel predatore che innaffia la sua preda, la notizia, e vi immette particolari che, forse, ne solleticano l’aspetto, rendendola più appetibile, meno conciliatoria, più cinematografica, in grado di confondere l’opinione del cittadino-tipo. “State of play” è un film che trasuda in modo prepotente l’odore di naftalina, è compatto, ma non armonico, è dettagliato, è passatista, ma ha una carica modernista, è cinico e spietato, ma eroico, è ambiguo, senza essere amorale. “State of play” è un film, e questo è un suo demerito, profondamente costruito. Un thriller si basa su una costruzione ferrea, ha bisogno di un certo manuale di concatenazioni che rendano l’impianto standard. E le concatenazioni, in “State of play”, sono evidenti, alcune esagerate, alcune decise, forti, congeniate con finezza ed inventiva. Il problema deriva da un altro tipo di edificazione: quella ambientale. Immerso nel mondo dei blogger moderni, nell’asetticità ingrigita di una sede redazionale che ha i contorni di una fabbrica, come un occhio che guarda dall’alto e biascica la notizia fino al piano inferiore, sembra un film, anche a livello visivo, che echeggia atmosfere postmoderne e spoglie, da un romanzo distopico, piuttosto che da thriller tradizionale. Infatti, la scene, visivamente, più riuscite, sono quelle che riguardano il contesto politico di uffici “scolpiti” nel legno, nei tessuti dai color caldi, nelle abatjour soffuse e nelle lampade verdi da tavolo, fabbricate in ottone. Crowe funziona, Affleck è meno amorfo e distaccato di molte altre pellicole, ma il vero gioiellino è l’intensità di Robert Wright Penn, minimalista, che appanna Rachel McAdams e non fà brillare Helen Mirren. La pellicola, diretta da MacDonald, che esagera con il carattere pretenzioso e con la scrittura marcata, gioca tra criteri labili e valori dissimulati.

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