Siamo su livelli storici, recenti, vicini. L’epoca del terrorismo di colore, di fazione, dell’ideale rivoluzionario. Gli anni ’70 rappresentano un percorso storico configgente, bipartitico. Esso si rinchiude nella logica dei blocchi e del potere di influenza ideologica. E’ così che vengono alla luce, sovvenzionati a volte da organizzazioni politiche, i gruppi combattenti. Anche in Europa. La chiave di volta è molto chiara: l’esperienza fascista è stata così traumatica da scongiurare il percorso di una sua riformazione in ogni modo, mentre due visioni complesse e articolate, come l’ottica comunista e quella capitalista, si diffondono tra strali del modello di classe. In realtà, parlare di comunismo e capitalismo, come base dei movimenti degli anni ’70, non rende del tutto l’idea. La RAF è stata, con le sue azioni, un’esperienza di un certo peso politico e storico, anche se il suo potere rivoluzionario non si è avvertito molto. Quello che più si ricorda della RAF è l’aspetto visivo, d’immagine. La banda Baader-Meinhof, prima fase combattente, ha riempito giornali, ha innescato un meccanismo di mitizzazione tale che solo Mesrine in Francia, con un resoconto “politico” del tutto diverso, è riuscito a riproporre. L’operazione mediatica messa in atto dai gruppi combattenti ha avuto un certo riscontro anche in Italia, ma non ha creato, mai, come in Europa, una stratificazione e un consenso popolare da trasformare i guerriglieri in icone. Un caso limite, diverso per ottica politica e conformazione, ma uguale per peso mediatico, corrisponde alla Banda della Magliana, tornata di recente alle cronache artistiche (con Placido che ha diretto il mediocre "Romanzo Criminale", da cui la serie tv per Sky più riuscita) e non. Il regista del film, Uli Edel, di cui si ricorda soprattutto Christine F., prosegue la strada ormai tipica del cinema tedesco d’esportazione: tracciare un resoconto della storia tedesca. Il profilo è meno thriller delle “Vite degli altri”, uno dei più bei film degli ultimi anni, meno sognatore di “Goodbye, Lenin!”, meno scenico, d’impatto e controverso della “Caduta”. Dei suddetti film, “La banda Baader Meinhof” è il meno riuscito, non ha guizzi, non ha resa emotiva. E’ un action, un action con implicazioni ideologiche forti. In realtà, tra i personaggi della RAF, solo Ulrike Meinhof appare la mente del progetto, colei che ha piena conoscenza del sistema storico-politico, a quanto si apprende. Andreas Baader è un personaggio sbiadito e monocorde, un uomo d’azione. Il nesso centrale, attorno al quale si muovono le fila degli altri due protagonisti, è Gundrun Ensslin, che riesce a compensare l’eccessivo intellettualismo della giornalista con uno spirito di iniziativa che è più in linea con il compagno e fidanzato Baader. Uli Edel ha un obiettivo che non è da poco: finita l’era dei film a tesi, oggettivizza la tematica storico-politica nel puro intrattenimento, magari spacciato per film d'autore, nei limiti del caso. Al regista, interessa soltanto raccontare una storia veloce, come se fosse un "The Bourne ultimatum" mescolato a Melville, senza troppa personalità, e mixato con un tocco di brandy amarognolo, tanto per ispessire e far intendere che sia coerente il legame con la realtà. La banda non viene immolata all’altare del martirio e il sistema politico capeggiato da Horst Herold (Bruno Ganz) non è criticato, ma nemmeno giustificato. Il cinema politico non esiste più, il cinema chiamato ad investigare tantomeno, il cinema della memoria a favore dello Stato praticamente irrealizzabile. E allora qual è la prospettiva del regista? Nessuna. Probabilmente una fiction tv sarebbe bastata.
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