Se il ferro è pur sempre ferro, Ms. Thatcher non è la “lady di Ferro”, perché con il vero ferro, quello compatto, scardinato dall’ossatura di un solaio, non ha molto a che fare. Il suo pugno non è di ferro, neanche usando una metafora, ma di potere. C’è chi, già allora, ha combattuto per i lavoratori, il succo ed il nettare migliore della gioventù e della working-class inglese. L’arte contribuisce, fin da subito, ad inasprire una dura battaglia contro i nuovi liberalizzatori, imprenditori, monopolisti, contro tutto quel nuovo sistema di potere che regge la decisione di smantellare il Welfare, antico ricordo dello Stato Sociale e che induce ad un Liberalismo ademocratico. E Ken Loach è il paradigma dell’autore “sociale”, dell’analista che vede e ridisegna sul grande schermo, filma e monta, con una documentazione a tesi servita su un piatto d’argento narrativo. La tesi politica non, però, è il piatto forte, per quanto ideologica possa essere. il racconto non ha intoppi politici, non annoia, anzi è frutto di una tecnica quasi antifrastica e fa ridere, talvolta. E’ un poema corale, che però non dimentica un vero protagonista centrale. Si chiama Stevie, ha un giubbotto che sembra di pelle, non è un tipo preciso, non ha un carattere memorabile. E’ un operaio, stanco, ma ancora giovane, volenteroso di rifarsi una vita dopo un certo periodo passato in galera. Si innamora di una donna che oscilla tra l’essere spenta e l’essere a mille, colorata e vestita in modo naif, ancora modulata sull’eccentricità degli anni 80, cantante e attrice. Le aspettative lavorative sono bassi, lo stipendio quasi da fame ma sostenibile, il rischio alto, poche le speranze per i più vecchi, molte per i più giovani, destinate a cadere nel nulla, nel dimenticatoio. La location è immersa nella periferia, sporca, vecchia, inumidita dal tempo non clemente e ingolfata dal puzzo da inquinamento di ogni tipo. Non si vuole mai, però, scendere nell’assoluto pessimismo, si raccontano barzellette, non c’è una drammaticità fine a sé stessa. E’un tocco lieve di disagio, che diventa sempre più forte, si ridimensiona per un attimo di felicità, e, poi, ridiscende nella satira, per culminare nell’abbandono di sé stessi e degli altri, dimentichi quasi di tutto tranne che del lavoro necessario alle funzioni vitali preminenti. I poveri non hanno neanche il tempo di essere depressi.
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