La scampagnata
Un albero di ciliegie variopinte di sfumature. Il bianco e il nero del tempo lontano, il colore del tempo vicino. La campagna non ha colori punteggiati, l’acqua è grigia, ed una barca di pescatori lascia la sua scia, scia sull’acqua grigia che mostra, nonostante i colori del tempo passato, la sua estrema limpidezza, lucida sino a porgere uno sguardo nel vuoto che la colma, già, però, imbevuta del suo primo odore di occlusa morte, rifiuti gettati dalle barche, industria che cammina sulle acque e ritorce la natura contro di sé. Tempo di vita grama, per alcuni, tempo di vita benestante, per altri. Il cocchiere giunge da Parigi in aperta campagna, si ode, un siero, l’odor di primavera. L’inverno non ha odore. E’ un freddo che chiude i pori, e le narici si abituano a non inspirare, dissolte nell’interno. L’inverno ha l’odore di una casa, di un locale. La primavera mescola l’odore di vita con l’odore di pienezza. E’ forte, tanto forte, tanto pregnante che finisce per farci collassare, collassato esso stesso in un profumo strano e nuovo, diverso ed incontenibile. L’odore di primavera è impassibile, inequivocabile. La Senna, dipinta da Renoir padre, non è mai stata così simbiotica nel Renoir figlio. Dalla pittura, alla regia, un passaggio di consegne ed un tributo, il più grande. Non c’è solo Renoir padre nella “Scampagnata”, girata nel 1936, resa pubblica dieci anni dopo. In primis, Maupassant banchetta un suo scritto con la realtà dell’immagine. Noi siamo gli altri ospiti, inviati a soggiornare nella campagna e a cibarci di quel nulla che non abbiamo. A servire il piatto, a dare il bocconcino, mentre sediamo sotto l’albero di mandorlo, è Renoir figlio, leggiadro e lieve. Il tempo del gentil viver, il tempo della calma serena, del pensiero e della commozione è sordo ai nostri odierni richiami. Il mondo è lo stesso, siamo gli stessi, non vi è, però, l’odore di primavera e la lacrima che accompagna un tramonto e il canto di un albero mattutino, e il suono di un temporale nel cielo. Il tempo del colore moderno è, talvolta, il tempo del colore sbiadito. Il bianco e il nero del tempo passato concedono il lusso del contatto con il mondo naturale. Oggi, questa possibilità è preclusa in parte a noi uomini, che viaggiamo lungo il viale di piante gremito, senza che lo spirito e la purezza della terra bruna, del sole cocente, dell’albero maestro di foresta, possano ricondursi nella loro vecchia essenza e farci piangere dinanzi all’inarrestabile meraviglia del creato romantico. La vita , quella vera, è sfacciata e leggera. Un bottegaio ha una moglie pienotta, un’anziana madre che cigola sulla sedia con un gattino che fugge, una figlia, con il suo bisogno di divertimento su un’ altalena che spinge fino al cielo. Poi, cade l’altalena, la fune si spezza, rimane un ricordo vitale, impresso in un bacio, sotto un albero vicino al fiume, intessuto di rami, da coprir il cielo sempre piovoso, cantando un uccellino. La campagna è poetica, la vita speranzosa, la giovinezza inquieta, la maturità giovale, sbarazzina e poco attenta al sentimento vero. Di lì a poco, sarà estate, l’estate del 1860, e si acuirà il ronzio. Ma, rispetto al rumore della città, “In campagna tutto diventa silenzio”. L’inquieto viver dimora in Henriette, la sua vita matrimoniale è decisa. Ritornerà, l’anno dopo, in campagna e saggerà il ricordo baciato e malinconico del momento perduto, dell’attimo che vola via e passa. Opera amara, vitale allo stesso tempo, con una regia eccelsa e una grande Sylvia Bataille. I minuti sono meno di quaranta, per necessità varie. Ma sono i soli sostenibili dall’uomo che scopre il suo sentimento, oggi, dinanzi ad un film.
Giudizio numerico: 9/10
Un albero di ciliegie variopinte di sfumature. Il bianco e il nero del tempo lontano, il colore del tempo vicino. La campagna non ha colori punteggiati, l’acqua è grigia, ed una barca di pescatori lascia la sua scia, scia sull’acqua grigia che mostra, nonostante i colori del tempo passato, la sua estrema limpidezza, lucida sino a porgere uno sguardo nel vuoto che la colma, già, però, imbevuta del suo primo odore di occlusa morte, rifiuti gettati dalle barche, industria che cammina sulle acque e ritorce la natura contro di sé. Tempo di vita grama, per alcuni, tempo di vita benestante, per altri. Il cocchiere giunge da Parigi in aperta campagna, si ode, un siero, l’odor di primavera. L’inverno non ha odore. E’ un freddo che chiude i pori, e le narici si abituano a non inspirare, dissolte nell’interno. L’inverno ha l’odore di una casa, di un locale. La primavera mescola l’odore di vita con l’odore di pienezza. E’ forte, tanto forte, tanto pregnante che finisce per farci collassare, collassato esso stesso in un profumo strano e nuovo, diverso ed incontenibile. L’odore di primavera è impassibile, inequivocabile. La Senna, dipinta da Renoir padre, non è mai stata così simbiotica nel Renoir figlio. Dalla pittura, alla regia, un passaggio di consegne ed un tributo, il più grande. Non c’è solo Renoir padre nella “Scampagnata”, girata nel 1936, resa pubblica dieci anni dopo. In primis, Maupassant banchetta un suo scritto con la realtà dell’immagine. Noi siamo gli altri ospiti, inviati a soggiornare nella campagna e a cibarci di quel nulla che non abbiamo. A servire il piatto, a dare il bocconcino, mentre sediamo sotto l’albero di mandorlo, è Renoir figlio, leggiadro e lieve. Il tempo del gentil viver, il tempo della calma serena, del pensiero e della commozione è sordo ai nostri odierni richiami. Il mondo è lo stesso, siamo gli stessi, non vi è, però, l’odore di primavera e la lacrima che accompagna un tramonto e il canto di un albero mattutino, e il suono di un temporale nel cielo. Il tempo del colore moderno è, talvolta, il tempo del colore sbiadito. Il bianco e il nero del tempo passato concedono il lusso del contatto con il mondo naturale. Oggi, questa possibilità è preclusa in parte a noi uomini, che viaggiamo lungo il viale di piante gremito, senza che lo spirito e la purezza della terra bruna, del sole cocente, dell’albero maestro di foresta, possano ricondursi nella loro vecchia essenza e farci piangere dinanzi all’inarrestabile meraviglia del creato romantico. La vita , quella vera, è sfacciata e leggera. Un bottegaio ha una moglie pienotta, un’anziana madre che cigola sulla sedia con un gattino che fugge, una figlia, con il suo bisogno di divertimento su un’ altalena che spinge fino al cielo. Poi, cade l’altalena, la fune si spezza, rimane un ricordo vitale, impresso in un bacio, sotto un albero vicino al fiume, intessuto di rami, da coprir il cielo sempre piovoso, cantando un uccellino. La campagna è poetica, la vita speranzosa, la giovinezza inquieta, la maturità giovale, sbarazzina e poco attenta al sentimento vero. Di lì a poco, sarà estate, l’estate del 1860, e si acuirà il ronzio. Ma, rispetto al rumore della città, “In campagna tutto diventa silenzio”. L’inquieto viver dimora in Henriette, la sua vita matrimoniale è decisa. Ritornerà, l’anno dopo, in campagna e saggerà il ricordo baciato e malinconico del momento perduto, dell’attimo che vola via e passa. Opera amara, vitale allo stesso tempo, con una regia eccelsa e una grande Sylvia Bataille. I minuti sono meno di quaranta, per necessità varie. Ma sono i soli sostenibili dall’uomo che scopre il suo sentimento, oggi, dinanzi ad un film.
Giudizio numerico: 9/10
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