L'etica del wrestler

The wrestler




Aronofsky sembra distaccarsi in modo quasi disarmante dai suoi primi lavori, eppure questa rottura con il cinema sperimentale e l’identificazione con delle semplici riprese a spalla non è un deterrente tale da suscitare un parere negativo. La spinta tradizionalista, di per sé, non è un male ed è molto perspicace l’utilizzo di uno stile che renda al meglio una sceneggiatura. Ci sono registi di culto, ipnotiche le loro riprese, scardinati tutti gli stratagemmi casuali, metaforiche e simboliche le scelte spaziali. Ci sono registi interessati al lato interpretativo del soggetto, al veicolare un messaggio attraverso le parole con similitudini più semplicistiche, spesso scontate. L’aspetto visivo è, in molti casi, sacrificato in onore della storia, la storia, in altri, si genuflette al dominio dell’immagine. Sembrerebbe facile realizzare, dato questa premessa, un film che riesca a concentrare arguzia registica di un certo spirito innovatore e sceneggiatura armonica. The wrestler, in parte, sembra una scommessa vinta. Non ci sono guizzi delle riprese, ma c’è un’attenzione che permette di mantenere un’attitudine indipendente e c’è una forte, quasi opprimente, profondità, visibile in una disperazione che non ha toni altisonanti, né isterismi, né gigionate, né drammi, ma una semplice, a volte poco espressa in chiave verbale, naturalezza recitativa. Ad acciuffare i capelli dello spettatore, è, mai come ora, la recitazione, che non vuole essere spolpante né anela alla finzione. I personaggi sono identificati con gli attori che li interpretano, sia perché in loro c’è una traccia di rispondenza a canoni tipicamente normali, sia per le vette, quasi quotidiane, nei volti e nelle voci di chi traspone lo scritto su un piano fonico o visivo e, soprattutto, comunicativo. Subentra, in questo senso, il terzo fattore, quello che, in presenza di una buona sceneggiatura ed una capace regia, garantisce la presa di una pellicola. E, dati gli esiti discreti delle due componenti, è questo il gancio, la mossa decisiva, che dà una carica micidiale al film. Le ferite dei lottatori sono sanguinanti, alcune scene fortemente evocative, sottili, e sanciscono, in maniera maggiore, l’equazione profondamente umana di Randy. Si pensi all’accordo e alla grande interrelazione tra i “wrestlers” o al gesto, spontaneo, di porgere la propria gamba di ferro (l’Iraq irrompe più volte, come quando si discute di Call of duty IV), come atto di fiducia e di aiuto all’uomo che combatte. Qui è la vera chiave di volta del film, che si dipana in una battuta disperata, verso le scene finali. Il mondo della lotta diventa l’apice di una vita, ma non riesce a sostituire la vita. Randy vive con disagio la situazione di marginalità che impone un passaggio necessario, ha profondi rimpianti per le occasioni mancate con la figlia ormai lontana, brama di provare un amore che vada oltre la barriera fisica e sessuale. La sua frequentazione dei club non può non prescindere dall’affetto, quasi salvifico, che prova verso Cassidy. E’ come se non avesse costruito nulla, nonostante l’ animosità, il coraggio, la passione, la fama. Non è un uomo del presente, non ha futuro, anche se avrebbe delle opportunità, vive in un passato di ricordi piacevoli, ma non ha nemmeno la forza di opporsi alla sua vita, l’accetta e continua a combattere. Fino alla fine. Metafora dell’ascesa e della risalita, soprattutto grazie alla storia personale del grandioso Rourke che si oggettivizza nella figura del loser (ma non poco diversa è stata la sorte della rinata Tomei), conferma il talento di una disarmante Evan Rachel Wood. Sui titoli di codi, Springsteen ed un testo che è pura poesia.

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