Vogliamo vivere!
Lubitsch respira una ventata di commedia sciatta, cabarettista, a prima vista senza charme e senza guizzo. In realtà, “Vogliamo vivere!” è un film molto complesso, corpulento, maciullato da un sonoro pessimo (ahinoi!). L’estetica visiva, insieme al canovaccio, protende verso la tecnica del metacinema ed, in genere, metalinguistica/comunicativa come espressione di una memoria di stampo prettamente visivo prima che di remota identificazione sonora, abusando del canovaccio che non risponde a criteri di non contingenza. Lubitsch non si limita al gustoso aspetto di distruggere, solo parzialmente va detto, il carattere e la psicologia dei personaggi attraverso la loro cristallizzazione in un ruolo unico, senza perdere di vista la loro essenza necessariamente comica, ma costruisce una scatola cinese o, meglio, una matrioska russa, in cui l’attore, di per sé, già primario elemento di identificazione (ricordiamo l’ottima prova della scomparsa Carole Lombard) si oggettivizza, in una pellicola (elemento di oggettivazione, a sua volta, di idee di coloro che la creano), in un personaggio di un’opera teatrale, a sua volta allestita da altrui capacità, che, in balia di eventi drammatici (occupazione nazista della Polonia, 1939), diventa parte integrante di una recita a soggetto che perde il suo carattere finzionistico, pur in realtà mantenendolo (in questo senso, c’è l’ovvia considerazione dell’inconsapevolezza da parte di coloro che non partecipano al piano rivolto ad opporsi alle ingerenze politico-territoriali dei tedeschi, in un clima di facinorosa lotta da parte della Resistenza polacca, come si evince dalle didascalie che mostrano un Hitler impiccato). Metateatro puro in un’opera di cinema. La situazione viene complicata (è da qui il carattere solo apparentemente semplicistico, in realtà molto “dissociato”) da una serie di inconvenienti incalcolabili ed impossibili da decifrare che fanno intravedere la capacità di assimilazione che è frutto di un genio. C’è una lineare vaghezza nella sceneggiatura, tanto lineare nella sua ripetizione di uno schema, quanto imprevedibile nell’effetto di tal schema, che non sembra accovacciasi su un ghirigori costante, ma produce, a sua volta, effetti indesiderati che non si localizzano nella struttura di partenza. Si osservi, inoltre, un altro dato di per sé eloquente: la resa spiccatamente teatrale è garantita dall’inserimento (si veda la parabola post-aggressione) dei personaggi secondari in una precisa cornice, per esempio, la neve che si ammassa in modo tale da garantire il passaggio del character, avendo una funzionalità, di certo, legata all’azione, ma, inoltre, fortemente scenica. L’impianto semi-innovativo del lungometraggio deriva da un accorgimento di tipo spaziale: come in un teatro, c’è sempre un ingresso, simboleggiato dalla figura chiave della porta, che mette in comunicazione l’aspetto finzionistico (del tranello) con quello reale (dell’occupazione). Se il film è stato tacciato di essere poco rispettoso, non lo si deve al regista, ma alla funzione strettissima che separa la realtà dalla finzione, il ben agir dal cattivo agire. Ed è altrettanto significativo che la resa spaziale renda su un piano comunicativo gli aspetti conflittuali. Perciò, attraverso la tecnica del ribaltamento, le due parti diventano entrambi reali (anche il piano della Resistenza si concretizza) ed entrambi finte, fuoriuscite da uno spettacolo all’Amleto, per esempio, o più proficuamente, da una rappresentazione farsesca (da qui il carattere da idiozia pura dei tedeschi). Lo spettacolo iniziale sul Furher censurato è la punta del triangolo da cui parte questa personale lettura.
Giudizio numerico: 9/10
Lubitsch respira una ventata di commedia sciatta, cabarettista, a prima vista senza charme e senza guizzo. In realtà, “Vogliamo vivere!” è un film molto complesso, corpulento, maciullato da un sonoro pessimo (ahinoi!). L’estetica visiva, insieme al canovaccio, protende verso la tecnica del metacinema ed, in genere, metalinguistica/comunicativa come espressione di una memoria di stampo prettamente visivo prima che di remota identificazione sonora, abusando del canovaccio che non risponde a criteri di non contingenza. Lubitsch non si limita al gustoso aspetto di distruggere, solo parzialmente va detto, il carattere e la psicologia dei personaggi attraverso la loro cristallizzazione in un ruolo unico, senza perdere di vista la loro essenza necessariamente comica, ma costruisce una scatola cinese o, meglio, una matrioska russa, in cui l’attore, di per sé, già primario elemento di identificazione (ricordiamo l’ottima prova della scomparsa Carole Lombard) si oggettivizza, in una pellicola (elemento di oggettivazione, a sua volta, di idee di coloro che la creano), in un personaggio di un’opera teatrale, a sua volta allestita da altrui capacità, che, in balia di eventi drammatici (occupazione nazista della Polonia, 1939), diventa parte integrante di una recita a soggetto che perde il suo carattere finzionistico, pur in realtà mantenendolo (in questo senso, c’è l’ovvia considerazione dell’inconsapevolezza da parte di coloro che non partecipano al piano rivolto ad opporsi alle ingerenze politico-territoriali dei tedeschi, in un clima di facinorosa lotta da parte della Resistenza polacca, come si evince dalle didascalie che mostrano un Hitler impiccato). Metateatro puro in un’opera di cinema. La situazione viene complicata (è da qui il carattere solo apparentemente semplicistico, in realtà molto “dissociato”) da una serie di inconvenienti incalcolabili ed impossibili da decifrare che fanno intravedere la capacità di assimilazione che è frutto di un genio. C’è una lineare vaghezza nella sceneggiatura, tanto lineare nella sua ripetizione di uno schema, quanto imprevedibile nell’effetto di tal schema, che non sembra accovacciasi su un ghirigori costante, ma produce, a sua volta, effetti indesiderati che non si localizzano nella struttura di partenza. Si osservi, inoltre, un altro dato di per sé eloquente: la resa spiccatamente teatrale è garantita dall’inserimento (si veda la parabola post-aggressione) dei personaggi secondari in una precisa cornice, per esempio, la neve che si ammassa in modo tale da garantire il passaggio del character, avendo una funzionalità, di certo, legata all’azione, ma, inoltre, fortemente scenica. L’impianto semi-innovativo del lungometraggio deriva da un accorgimento di tipo spaziale: come in un teatro, c’è sempre un ingresso, simboleggiato dalla figura chiave della porta, che mette in comunicazione l’aspetto finzionistico (del tranello) con quello reale (dell’occupazione). Se il film è stato tacciato di essere poco rispettoso, non lo si deve al regista, ma alla funzione strettissima che separa la realtà dalla finzione, il ben agir dal cattivo agire. Ed è altrettanto significativo che la resa spaziale renda su un piano comunicativo gli aspetti conflittuali. Perciò, attraverso la tecnica del ribaltamento, le due parti diventano entrambi reali (anche il piano della Resistenza si concretizza) ed entrambi finte, fuoriuscite da uno spettacolo all’Amleto, per esempio, o più proficuamente, da una rappresentazione farsesca (da qui il carattere da idiozia pura dei tedeschi). Lo spettacolo iniziale sul Furher censurato è la punta del triangolo da cui parte questa personale lettura.
Giudizio numerico: 9/10
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