Two lovers
Una chiusa, e l’acqua sembra dividersi in due specchi, su cui si muove una nave infiammata nei suoi interni di polvere e salsedine. Quando la chiusa si apre, il livello di un frammento d’acqua si abbassa, garantendo il defluire della nave vestita di tutto punto e ripulita da idranti che il mozzo sembrava aver dimenticato nella tranquillità del porto. I due specchi d’acqua corrispondono agli amori, l’imbarcazione sfibrata e rifiorita all’uomo che li cerca. James Gray realizza un’opera compiuta, che rimanda al Dostoevskij delle “Notti Bianche”, ed è una granata romantica senza essere sentimentale, di drammi sottili, di umane comprensioni. Il passo in avanti, nella cinematografia odierna, è già da salutarsi con il lancio di fiori e di riso bianco, di moneta sonante (in realtà gli incassi americani del film sono stati tutt’altro che buoni), di esclamazioni di giubilo. L’ultimo Gray non è solo un passo in avanti, è un piede che si protende nel futuro, non nel presente, affondando le mani nel passato del melodramma ( le descrizioni visive di ambienti cittadini, le musiche citate, rilette e quasi automatiche in certe scene, le scelte di sceneggiatura e di inquadratura, che ricollegano all’ambiente famigliare ed, in particolare, all’ottica del “tavolo”, ovvero alla centralità del pasto, nella sua totalità, come modello di scontro-incontro e, quindi, di confronto, tra conoscenti). La prima scena, dal ponte, ci introduce nell’ottica del personaggio, Leonard, sindrome bipolare. Non c’è, però, un’identificazione della sua psicologia con il suo comportamento. Ciò non significa che agisca non in base a sé stesso, ma che il suo comportamento non derivi sulla base di un’unica variabile, quella “patologica”. Questo potrebbe lasciare di stucco, ma, in realtà, la lettura clinica non è evidente, e l’intento non è di raffigurazione totale, bensì di interiorizzazione ed esplicazione dell’afflato amoroso. Altra novità, non è l’amore esterno che “salva” Leonard dal suo stato di malessere, quanto l’amore che egli riesce a provare per gli altri. E la voglia di ripartire, comunque, anche dopo l’ennesima delusione. E’ un film molto sfaccettato, sfumato, ma deflagrante. Se volessimo operare un paragone, che qualche critico italico ha già evidenziato, riferendoci alla stagione appena passata, c’è “Revolutionary Road” di Mendes. Solo che, da un lato, c’è un carattere smaccatamente costruito, enfatico e modesto, caricato ed indigesto, dall’altro, con Gray, si va sul sicuro, anche perché la storia non va avanti per inerzia ma per accentuazione dell’aspetto marcatamente emozionale. E’ lapalissiana la provenienza dal noir di Gray, e quindi, la maggiore capacità di coniugare il dramma con svolte inedite (ed una regia fantastica), ma il fattore che “facit pontem” tra l’emozione e l’immagine deriva soprattutto dalle interpretazioni. Joaquin Phoenix si conferma uno dei più importanti attori della nuova era e batte il pur bravo Di Caprio, per un’immediatezza che ne fa un modello esportabile nei film europei. Si spera che il suo allontanamento dalle scene sia una boutade organizzata ( e il “mock” di Casey Affleck sembra darcene conferma), giacchè, come rapper, il livello non è altissimo, ad essere benevoli. Gwyneth Paltrow è l’attrice che più può aspirare, con la Blanchett, a rimanere negli annali. Facciamo mea culpa per le eccessive critiche rivolte. Interpretazione sublime, che andrebbe premiata. Vanessa Shaw è brillante. Fotografia fantastica, come la location. Una “perla” di mare, quand’è ancora inverno inoltrato nel film, e ci si avvicina ad una primavera diversa, pacificata. Anche la chiusa si apre e rimane un unico grande specchio.
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