Che- l’Argentino
La storia cubana, come la storia di molti paesi colonizzati, per quanto si adoperi l’uso di una certa avalutatività di giudizio, è, di per sé, un contenzioso aperto, un grafico reale, a cui non corrisponde un’elaborazione concettuale coerente. In realtà, la storia c’è, è scritta, è definita, condivisa anche, leggibile. Come in molti altri casi, però, ed in questo in maniera più prepotente, si fa della storia l’ideologia e si allucina la realtà oggettiva. In questa prospettiva, Che è l’eroe inavvicinabile o il nemico giurato, l’uomo vittorioso o il perdente martirizzato. Entrambe le riflessioni sono frutto di un giudizio ideologico, e quindi figlie di un criterio di valutazione politico, come se fossimo ancora all’epoca dei blocchi, tra capitalisti e comunisti. Elaborare un percorso storico è rischioso, molto spesso parziario, altrettanto soggettivo. E la storia con il soggettivismo non ci va a braccetto, a dire il vero. Ma il pericolo è solo di tipo scientifico, e riguarda, in sé, solo la lettura della storia in quanto tale. Diverso è il discorso artistico. L’arte, per principio, è frutto di un’abilità personale. Ogni rilettura è possibile. Ne deriva il solito scarto tra realtà e finzione. Ma esso è superabile nella prospettiva che il mondo cinematografico, pur raffigurando la realtà, non è la realtà. Elaborato il preambolo, le opere ideologiche, anche a livello artistico, non hanno quasi mai quell’universalità immortale che passa da tempo a tempo. E’ un rischio a cui va incontro un cero tipo di cineasta, ormai smarrito. E, talvolta, la provocazione è fine a sé stessa, tendendo a destabilizzare, e produce, in via immediata, un certo riscontro, in via successiva, un forte disprezzo ed una svalutazione. “Che”, prima parte di un’opera imponente, non corre il rischio ideologico, nonostante ancora qualcuno ne trovi riscontro. Non è vitale, né apologetica, a tratti lenta, per alcuni noiosa. Personalmente, in una funzione non di dietrologia ideologia, si tratta di un documento importante di cinema, soprattutto. Pellicola molto umana, scarna di imprese epocali, mira alla ricostruzione (anni e anni di ricerche). Non sarà di certo un documento di verità storica assoluta, non sottolinea, di netto, doppiezze ed aspetti oscuri, ma è ciò che più si avvicina da una lettura verosimile, senza perdere qualcosa della propria partigianeria, ma senza eccedere nella glorificazione. Misurata, naturale, si distacca in due momenti, in due contesti: la fase della rivoluzione cubana, e la lunga intervista concessa dal Che nella sua trasferta alla sede delle Nazioni Unite. E’ magistrale la capacità di cogliere il lato ideologico del “comandante”, attraverso citazioni, posizioni nette, agguerrite controffensive dei leader degli altri paesi dell’America Latina. Il quadro storico della rivoluzione trova la sua giustificazione in quelle lucide posizioni personali di Guevara esplicitate attraverso la voce fuori campo, le immagini decolorate, l’atteggiamento incisivo. La radicalità del simbolo e la sua forza risiedono nelle capacità, il carisma, il senso di ribellione, ma il sogno emulativo si nasconde anche nella definizione di una certa immagine. Il sigaro, la motocicletta giovanile, la barba incolta, il basco, la tuta mimetica, sono dei fattori che consacrano la figura, la decontestualizzano e la ergono a simbolo, nel bene e nel male. In Che, indipendentemente dal sostegno politico, c’è la forza dei valori personali, ormai oppressi da una politica di partito. Benicio Del Toro “interpreta” nel senso più alto della parola, e Soderbergh ben dirige, tra sperimentalismo non compiaciuto e forza delle immagini che deriva dalla loro naturalezza.
La storia cubana, come la storia di molti paesi colonizzati, per quanto si adoperi l’uso di una certa avalutatività di giudizio, è, di per sé, un contenzioso aperto, un grafico reale, a cui non corrisponde un’elaborazione concettuale coerente. In realtà, la storia c’è, è scritta, è definita, condivisa anche, leggibile. Come in molti altri casi, però, ed in questo in maniera più prepotente, si fa della storia l’ideologia e si allucina la realtà oggettiva. In questa prospettiva, Che è l’eroe inavvicinabile o il nemico giurato, l’uomo vittorioso o il perdente martirizzato. Entrambe le riflessioni sono frutto di un giudizio ideologico, e quindi figlie di un criterio di valutazione politico, come se fossimo ancora all’epoca dei blocchi, tra capitalisti e comunisti. Elaborare un percorso storico è rischioso, molto spesso parziario, altrettanto soggettivo. E la storia con il soggettivismo non ci va a braccetto, a dire il vero. Ma il pericolo è solo di tipo scientifico, e riguarda, in sé, solo la lettura della storia in quanto tale. Diverso è il discorso artistico. L’arte, per principio, è frutto di un’abilità personale. Ogni rilettura è possibile. Ne deriva il solito scarto tra realtà e finzione. Ma esso è superabile nella prospettiva che il mondo cinematografico, pur raffigurando la realtà, non è la realtà. Elaborato il preambolo, le opere ideologiche, anche a livello artistico, non hanno quasi mai quell’universalità immortale che passa da tempo a tempo. E’ un rischio a cui va incontro un cero tipo di cineasta, ormai smarrito. E, talvolta, la provocazione è fine a sé stessa, tendendo a destabilizzare, e produce, in via immediata, un certo riscontro, in via successiva, un forte disprezzo ed una svalutazione. “Che”, prima parte di un’opera imponente, non corre il rischio ideologico, nonostante ancora qualcuno ne trovi riscontro. Non è vitale, né apologetica, a tratti lenta, per alcuni noiosa. Personalmente, in una funzione non di dietrologia ideologia, si tratta di un documento importante di cinema, soprattutto. Pellicola molto umana, scarna di imprese epocali, mira alla ricostruzione (anni e anni di ricerche). Non sarà di certo un documento di verità storica assoluta, non sottolinea, di netto, doppiezze ed aspetti oscuri, ma è ciò che più si avvicina da una lettura verosimile, senza perdere qualcosa della propria partigianeria, ma senza eccedere nella glorificazione. Misurata, naturale, si distacca in due momenti, in due contesti: la fase della rivoluzione cubana, e la lunga intervista concessa dal Che nella sua trasferta alla sede delle Nazioni Unite. E’ magistrale la capacità di cogliere il lato ideologico del “comandante”, attraverso citazioni, posizioni nette, agguerrite controffensive dei leader degli altri paesi dell’America Latina. Il quadro storico della rivoluzione trova la sua giustificazione in quelle lucide posizioni personali di Guevara esplicitate attraverso la voce fuori campo, le immagini decolorate, l’atteggiamento incisivo. La radicalità del simbolo e la sua forza risiedono nelle capacità, il carisma, il senso di ribellione, ma il sogno emulativo si nasconde anche nella definizione di una certa immagine. Il sigaro, la motocicletta giovanile, la barba incolta, il basco, la tuta mimetica, sono dei fattori che consacrano la figura, la decontestualizzano e la ergono a simbolo, nel bene e nel male. In Che, indipendentemente dal sostegno politico, c’è la forza dei valori personali, ormai oppressi da una politica di partito. Benicio Del Toro “interpreta” nel senso più alto della parola, e Soderbergh ben dirige, tra sperimentalismo non compiaciuto e forza delle immagini che deriva dalla loro naturalezza.
Che-Guerriglia
Il dittico di Soderbergh è completo, l’opera è maestosa, il componimento non accademico. Le quattro ore di “Che”, diviso in due parti, immortalano una serie di passaggi che vanno dall’umano al politico, dall’ideologico all’umano, in prossimità di un guado che intesse i diversi momenti. Se l’ideologico-politico trasuda nella prima parte, è l’umano-emotivo a cadere nel groviglio della Storia nella seconda. La visione non è solo speculare, ma necessaria e stringente: l’epoca della Rivoluzione Cubana è l’esternazione teorica dell’ideologia, attraverso il saggio espediente acromatico dell’intervento alle Nazioni Unite, l’epoca della Rivoluzione Boliviana è, di contrappunto, la pratica. E il contrappasso è evidente, ma la tematica dominante non impedisce, in nessuno dei due casi, di eludere l’altra. E’ un pezzo di pane tozzo che si imbeve nel latte: prima secco, arido, compatto, poi, nell’atto di intingere, ondeggiante, macilento a mantenere la sua forma e a non staccarsi dall’estremità delle dita, infine completamente a mollo e quasi disperso nel fiume concentrico di liquido bollente. Così, il momento umano e il momento politico si scambiano, vicendevoli, nella realtà filmica, anzi riescono, perfettamente, a giustapporsi in un continuum che si ritrova in quasi tutto il film: l’ideologia è base dell’uomo e viceversa. E’ così che l’opera, non priva, nel complesso, di qualche umana sbavatura, diventa artistica, non indicativa di favori commerciali semplicistici, ma di capacità di rompere con il vecchio modello biografico e fare del biopic la vetta che coniuga tecnicismo e calore, anche se rendendo sterile, quasi ricoperta di garze, la linea sovversiva, enfatica, pulp, spettacolare. Non è un gioco, è un ritratto catapultato in una dimensione filmica. E’ una bandiera con un’asta, una fotografia, un sorriso, una barba incolta, un insieme di gole altissime che confluiscono in un unico punto comune, un territorio gremito di animali morenti, selve inospitali, di altitudini impressionante, dove l’asma del Comandante, porta il respiro alla massima intensità, impregnato il clima dell’odore della sconfitta, accerchiato il sole da un fiume che cerca di evitarne la visione specchiata, manchevole il narcisismo, laddove domina la paura, la povertà, la sottomissione dei contadini, lasciati in balia delle loro case rivestite di paglia, dei loro miseri averi, fronti solcate da rughe profonde come un mare denso di sofferenze. La guerriglia opera nel silenzio di un moto impassibile, nel ruggito del grido di certi ideali, ma l’appoggio politico è limitato, Cuba lontana, rinnegata con onore e con rispetto, in cerca di un internazionalismo non fine a sé stesso, perché, per il Che, la lotta non prescinde da una catalogazione territoriale, la Rivoluzione trascende i confini statuali e abbraccia gli oppressi. Ciò che si nota è come la dovizia, il credere nella speranza di un cambiamento, non sia un’ipotesi irreale, né una falsa utopia. Sono solo le condizioni che impediscono che la Bolivia sia una nuova Cuba. Sono l’intromissione preventiva di difesa americana, attraverso l’operato dei Rangers, l’abbandono da parte del blocco comunista, la scarsa abilità logistica, la condizione di ignoranza e di sudditanza dei contadini intimiditi a determinare l’esito drammatico. A quel punto, la macchina a mano sta per soffocare, in preda ad una crisi d’asma, mentre cade a terra. Poi il Che guarda il mare e i suoi fidati, gli unici rimasti della squadra: è all’inizio del viaggio, fuma il sigaro, e, alla fine del viaggio, permane il ricordo, lo sguardo di quel mare azzurro riposto sugli occhi neri, ombrosi e speranzosi di un combattente.
Commenti
Posta un commento