Bonnie & Clyde
Anni ’30, manifesti centrati del “New Deal” di Roosvelt. Non mancano foto segnaletiche con la dicitura “Wanted”, come nel vecchio West. Spari, qualche Ford coupé, una delle ultime rimaste, dopo il grande tracollo del ’29, “la bolla speculativa” ed il crack. Se c’è la crisi economica in un paese dalla grande potenzialità e dal passato giovane di ricchezza, molto spesso la gente si inventa di tutto per campare. Bonnie e Clyde sembrerebbero sgusciati dalla crisi, ma il regista, Arthur Penn, non ne è convinto, scettico, disturbato quasi da questa prospettiva, eccessivamente monetaria e citata, giù di lì, in un paio di occasioni, tanto per garantire una motivazione storica per l’epoca. In realtà, rileggere il film, oggi, non ci permette di ritornare alla depressione, che è sullo sfondo, poco netta, ma di soffermarci sugli anni in cui fu girata la pellicola, all’alba del ’68, quando il movimento artistico, culturale e societario affrontavano il primo deterioramento e si incamminavano su una strada nuova, crivellata dai giovani e nuovo modo di intendere l’essere al mondo. E’ un lungometraggio complesso quello di Penn, dinamico, nell’ultima parte argutamente frettoloso, quasi scomposto, non perché manchi di linearità, ma perché volutamente ricco di ellissi, di panoramiche che sono come i flash scattati nel mostrare le didascalie iniziali. D’altronde, sarebbe stato impossibile mostrare due miti, selvaggi e strafottenti, in una chiave tipicamente tradizionale. Volendo dare un tocco leggermente più pepato, il film e la storia dei due amanti, ad eccezione di qualche battutina fuori posto, sembrano più moderni del nostro attuale modo di concepire la vita. Clyde è un ladruncolo, un rapinatore, come il fratello, esprime una concezione largamente in linea con una valutazione politica, ideologica che lo porta a schierarsi dalla parte dei contadini, contro i soprusi, un anarchico, a volte, un ribelle soltanto, forse. E’ impotente, a quanto si capisce, e ciò sembra interpretabile in diversi modi: è il frutto di un mondo pornografico che non ha spazio per una sessualità banale? In realtà, non c’è stato ancora uno sdoganamento, a tutto tondo, del sesso. In questo senso, sarebbe più corretto affermare che è un figlio degli anni ’30, ineccepibili, morigerati, ortodossi e “chiusi”, estremamente “chiusi”. Da qui l’evidente critica di Penn e la nuova contestualizzazione, che sgorga poco prima della morte, con la soddisfazione per Clyde di “essere stato un capolavoro”. Bonnie è una donna molto forte, maneggia pistole, è irriverente, nella prima, celebre sequenza del trucco, è nuda. E’ come se la noia le appartenesse, quando non c’è azione, figlia di un mal di vivere moderno. La sua figura non è molto ideologica, è più istintiva che razionale, più passionale che mentale, più drammatica e meno comica, più maschile che femminile, tranne qualche parola alla fine ed una certa romanticheria mai smielata. In realtà, anche qui gioca il lato delle apparenze. E’ profondamente attaccata alla madre, quasi dipendente, la nomina nel primo incontro con Clyde e fa di tutto per vederla. Un’ultima volta. Dall’incontro, si chiarifica come la prospettiva materna non sia negativa, ma incapace di comprendere un percorso che non si condivide. Bonnie è molto scossa dal saluto della madre. A differenza di Clyde, nutre aspettative tutt’altro che positive: se l’uomo crede di poter scampare alla morte, la donna sa che questa non è solo una possibilità ma l’unica certezza della loro vita insieme. Per questo fa allontanare l’agente di pompe funebri e l’amata, portati, loro malgrado, nell’auto, insieme ad un ragazzo di periferia e agli sposi novelli Buck e Bianca, l’esempio di donna ancorata al passato. Faye Dunaway e Warren Beatty eccelsi. Entrambi è come se non mimassero, né interpretassero, diventando essi stessi icone, senza giudizi morali, ma con un carico di senso del rischio iperbolico che sfocia da una vita vissuta, come quella dei loro personaggi, e la consapevolezza di una drammatica fine. Il ghigno di Beatty è memorabile, così raggelante, eppure così umano. Burnett Guffey è il direttore della fotografia, e, indipendentemente dai bellissimi movimenti di meccanica, colpisce la limpidezza dell’immagine di colori che virano dal caldo ocra al seppia, con molta compattezza.
Capolavoro
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