su Canale 5 alle 21,10
“Io ti canto a me”…”Io ti sentirò”. Australia, terra incerta. Della sua storia si conosce poco. E quando un luogo sembra non avere storia, spesso, si raggomitola nella magia. Uno stregone è la metafora della condizione delle popolazioni autoctone, a seguito della colonizzazione inglese. Domina la scena del film, è un personaggio che raffigura la permanenza del passato nel presente, negli anni che precedono e seguono lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Figura molto semplicistica, solita gamba alzata sul promontorio che si estende sopra l’arido terreno, il deserto rosso, in realtà, con molti limiti, è l’espressione di una certa perseveranza, della convivenza del mondo aborigeno con quello moderno. Riesce a scampare ad ogni pericolo, vive e sembra che non possa morire. Più che una figura reale, è evanescente, simbolico, visionario.
L’uomo che vince, l’uomo che pretende di porsi a comando, che presenzia, non sconfigge. La tematica più forte, meno romanzata, è quella delle “Generazioni Rubate”, titolo di un'altra pellicola molto dura di Phillip Noyce. Accanto al mito della razza, negli stessi anni del Genocidio, il colore della pelle è il germe della diversità. L’uomo bianco regna, l’uomo nero ne è succube. Una scena ribalta la prospettiva: l’amico dei neri, il drover (mandriano), dopo il bombardamento su Darwin da parte giapponese, conduce l’aiutante di colore in una taverna riservata ai bianchi. E’ l’attimo in cui, nonostante un tono burbero, vi è una prima apertura. "Australia", oltre alla resa paesaggistica e alla storia d'amore, è anche questo. Banale, ma non stucchevole. E così veniamo a conoscenza delle storie di bimbi meticci, mezzo sangue, né bianchi, né neri, allontanati dalle madri e ricondotti in centri di “riabilitazione”, separati dal mondo. Dirà un “medico”, adducendo motivazioni “scientifiche”: “Le madri aborigene non sentono il distacco con i figli”…“E’ scientificamente provato”. Come un animale. “Australia” è molto altro, la storia di un amore, denso e banale, una sinfonia di luoghi comuni (il canguro ammazzato, la struttura scenografica di un “ranch”, l’australiano outback, con il mulino, la casa di un certo stile, le mandrie di grossi manzi facciatosta, defraudati e condotti verso la tenuta di Billabong, l’acquisto di proprietà terriera per la realizzazione di un monopolio), un po’di inventiva, guizzi nostalgici e scene ben girate con dolly. Pessima la scelta fotografica. I paesaggi, sterminati, sono colorati di finzione. Il sole è irreale, solo l’acqua della maestosa scena iniziale è inquadrata perfettamente, senza fronzoli. I personaggi sono di natura manichea, e se la Kidman lavora bene con Baz, grazie ad un’ironia mai banale, Hugh Jackman è un sex-symbol senza arte né parte. La sceneggiatura è leziosa, spesso melmosa, acerba. Bello il richiamo al “mago di Oz”. Il film è comunque sufficiente, grazie a Baz Luhrmann e alla capacità mimetica del fanciullo Brandon Walters. “Io ti canto a me”…”Io ti sentirò”….e sentiremo il passato nascere nella terra senza storia, continuando a pronunciare il suo nome. Si imparerà “a guardare e non a vedere”.
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