Review 2011 - Mildred Pierce, versione HBO













































Tanto, tantissimo mestiere nella miniserie realizzata per la HBO da Todd Haynes, celebre regista di "Lontano dal paradiso". Ma non è tutto oro quel che luccica e la splendida confezione visiva non è supportata da una scrittura altrettanto memorabile. Tra il tradizionale feuilleton, il dramma borghese di interni e qualche digressione social-light azzeccata, l'adattamento di Cain perde di gran lunga sul diretto antagonista del 1945 di Michael Curtiz, ma rimane un'esperienza extra-studios da elogiare per il coraggio produttivo e una serie di picchi emotivi e interpretativi di rara forza.

Era una scommessa azzardata, e non fatico a dire che la mia aspettativa era abnorme. Si è rivelata un'opera eccessiva nella durata, piuttosto enfatica (nel bene e nel male) e che riesce ad integrare le diverse componenti narrative dentro la tradizione del melò. Non c'è in questa miniserie un minimo di tendenza noir, grande vanto dell'episodio di Curtiz con Joan Crawford. Tutto è filtrato secondo un'ottica che rimanda ad una lettura sociologica, psicologica, realistica, senza eliminare la corposità standard dell'intreccio, ma sviluppandolo in piano, secondo un processo di scansione cauto, lineare, che perde le sue caratteristiche più scioccanti ed espressive e raggiunge il climax nella manifestazione del torbido "sensuale". Non c'è censura, d'altronde, e la carica erotica è impertinente, soprattutto se si orienta il discorso nel paragone con il film in bianco e nero. La componente melò è, comunque, asservita anch'essa alla linearità narrativa e viene privata di quei caratteri enigmatici, fortissimi, sicuramente poco realistici ma cinematograficamente perfetti, tipici del genere. Per dirla tutta, niente Douglas Sirk e la sua policromia densissima, ma nemmeno Almodovar e la sua forza viscerale, soltanto un lavoro tecnicamente magistrale, ma privo di una vera forza eversiva. E la cosa, vista l'estrema capacità creativa e sconvolgente del regista, in passato autore di film esagerati o difficilmente etichettabile come "Poison", l'esordio, o di opere tra pop-culture e avanguardia ("Velvet Goldmine" e soprattutto "Io non sono qui"), suona una bestemmia. E' chiaro che il vero riferimento chiave è "Lontano dal paradiso", riscoperta del genere melodrammatico, riletto, tra sbavature e grandi genialata, secondo la nostra ottica progressista, come esemplificazione formale di un malessere societario dell'America perbenista anni '50. Anche in quel caso, Haynes scioccava. In "Mildred Pierce", a dire il vero, la forza di combattente del regista si adagia troppo su singole articolazioni narrative, senza mai venire completamente a capo, senza emergere. Anche il finale è volutamente edulcorato (a parte il nudo di Evan Rachel Wood, che sarebbe stata una femme fatale perfetta), risolto senza grande trasporto. Un'altra postilla non propriamente positiva riguarda la scarsa appetibilità della scansione in epidosi di lunghezza sempre diversa e che risultano in molti punti noiosi, ripetitivi, con l'introduzione di personaggi non propriamente necessari (il carattere di Melissa Leo, per esempio) e l'eccessiva dilatazione di sequenze narrative che assumono una funzione puramente estetica. Se in un lungometraggio, la cosa è accettabile/auspicabile a seconda dei gusti, molto meno lo è in un'opera di più di 5 ore sullo schermo. Spesso, accade, che il momento topico o comunque imponente sia diluito troppo in là durante il singolo episodio, determinando una difficile credibilità dello stesso sotto un profilo razionale. Insomma, l'artifizio è visibile e facilmente deducibile, per non dire manierato. Aggiungo che la terza parte è un po' il giro di boa per comprendere che il lavoro non sia un'opera così rimarchevole, e la presenza della Wood è l'elemento di novità che permette al quarto episodio di essere molto superiore ai suoi due predecessori. Ma il finale cade, spesso, piuttosto in basso, tra leziose arie e scenografie imponenti. Sotto un profilo interpretativo, la Winslet è da promuovere, soprattutto per la capacità di aver umanizzato un personaggio apparso completamente algido (da copione) nelle vesti di un' indimenticabile Joan Crawford, con tratti popolani e rustici piuttosto marcati che mancavano alla diva americana. Il finale, tirato giù malissimo, la immobilizza in una serie di espressioni non troppo "nobilitanti", ma forse è meglio così. Perfetta la Wood, che in due episodi, riesce ad essere androgina e bellissima insieme, e ha la meglio sulla non troppo nota Ann Blyth dell'opera di Curtiz. Guy Pearce è stata la vera delusione. Con poca inventiva, gioca a fare il dandy da nobilità, seguendo il modello vecchio stile, ma non riesce ad entrare nel cuore dello spettatore, finendo ad essere carta da tappezzeria utile solo a fini narrativi. Molto meglio la semplicità di Brían F. O'Byrne, rigoroso e con un volto che buca lo schermo. Sottolineo la grande cura della colonna sonora, firmata Carter Burwell, che è la ciliegina di una torta filmica bella da guardare, meno buona da mangiare, ma con ingredienti ottimi di base. Manca l'abilità nel metterli insieme, ma d'altronde ci vuole coraggio a cercare di rifare il dolce della nonna, senza nemmeno un contesto famigliare protettivo (è un prodotto extra-studios). Una degustazione è ben accetta. 

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