Amarcord 25 Aprile - C'eravamo tanto Amati








Non particolarmente originale nell'assunto, ma dalla capacità analitica precisa e acuta, "C'eravamo tanto amati" è una delle ultime grandi "commedie all'Italiana" ad aver lasciato il segno nella cinematografia nazionale. Tra il "graffiante"e "il "polemico", con momenti "low-profile" e postille narrative corali per nulla scontate, l'opera dello Scola più  ispirato è un affresco umano e storico che riecheggia, in modo notevole, problematiche sorte nel dopoguerra, senza grande forza enfatica e puntando sulla rappresentazione paradossale con parziale assetto teatrale. Tra poesia e dramma sociale, "C'eravamo tanto amati" è un'opera agrodolce in grado di farsi apprezzare per il suo cinico disincanto, che oggi potrebbe suonare addirittura "docile", ma che in realtà, a vedere bene, è intatto e deriva dalla presenza di un'unica ideologia reale nella nostra società: l'opportunismo ambizioso mascherato da "amorevole" combriccola emotiva e caciarona. All'Italiana.

Ho scelto quest'opera, vagamente e solo concettualmente legata al 25 Aprile, perchè credo che più di ogni altra sia in grado di rappresentare una costante tipica della nostra Italia.  E la costante sta nel mutamento politico di facciata, che sia dal totalitarismo alle varie espressioni della democrazia, alimentato da una ricerca opportunistica alla base e da un atteggiamento, quello di trarre vantaggio, tipico della mentalità nazionale. Superata la difficoltà della guerra partigiana per la liberazione contro il fascismo, quel concetto di unità che aveva portato alla creazione della Repubblica nel 1948, progressivamente, viene svilito da ideologie e strumentalizzato da partiti. L'interesse americano, nel periodo post-guerra, all'inserimento dell'Italia nel "blocco occidentale", lo scontro alla "Don Camillo e Peppone" tra partito di matrice cattolica e compagni comunisti (con scissioni su scissioni), la "guerra fredda" e gli attentati estremisti di BR e partiti neofascisti, fanno il resto. Da quel lontano 25 Aprile 1945 ad oggi, passando per Moro, P2, "Mani Pulite", Seconda Repubblica, "conflitto di interessi" e questioni attuali, quello che mi importa rendere noto è che nulla è cambiato, nulla è mutato. 
"Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi", diceva il Principe di Salina. Ci sono riusciti.


L'elemento che mi colpisce maggiormente di "C'eravamo tanto amati" è la netta differenza tra la forma aperta alla commedia e anche alla spettacolarizzazione metacinematografica-teatrale e la sostanza, malinconica, pessimista, corrosiva, riflessiva che anima la pellicola. Per la capacità di innovazione formale, con il passaggio cromatico dal bianco e nero al colore, a sottolineare una diversa contestualizzazione storica, un montaggio che permette di aprire fronti temporali molto diversi, grazie ad ellissi azzeccate e una prospettiva che, di palla in palla, passa ai singoli personaggi, che fanno da voce narrante parziale e sono indagati senza una sistematicità banale a livello corale, ma con dei rimbalzi "perfetti", a cui aggiungere una lettura che sfida il realismo e affonda nella parodia con valenza surrealista, "C'eravamo tanto amati" è la più matura evoluzione/mutazione della "Commedia all'Italiana" nata anni prima, di cui ritornano gli storici sceneggiatori. E' anche un compendio storico, critico, emotivo (con tanto di dedica finale a quel Vittorio De Sica presente anche in un breve stralcio della pellicola) su un cinema che non c'è più. Ma la cosa più notevole corrisponde alla presenza di un "contenuto" che solo apparentemente coincide con la leggerezza della forma, e che, invece, diventa uno sguardo implicito, doloroso ed empatico su quello che tre reduci di guerra partigiana sono diventati, nel corso di una vita che li ha mutati, allontanati e riavvicinati. L'amicizia maturata durante i combattimenti, così vitale, mostra il suo limite continuamente, quando le ambizioni personali e gli stili di vita si contrappongono. I tre agiscono sul piano del dopoguerra e arrivano fino all'età contemporanea (il film è del 1974) cogliendo appieno le caratteristiche di quella fase: c'è l'intellettuale di sinistra, il borghese arrampicatore e il lavoratore-medio. Attraversano tanto la storia, quanto la cultura, quanto la vita. Ad un certo punto si vede Fellini e Mastroianni ri-girare "La dolce vita"e l'immagine di una kafkiana Monica Vitti che, musa di Antonioni, diventa la doppiatrice vocale di Giovanna Ralli. In tutto questo ciò che conta è il senso di opposizione che domina le vite di chi ha cercato sempre un "futurio migliore" dimenticandosi del presente e abbandonando le "promesse a sè stessi" fatte nel passato. La parabola comincia e finisce, senza una fine "reale", segno che il discorso continua (da preveggente Scola carpisce di aver raccontato solo una fase, quella della contrapposizione capitalisti/lavoratori/intellettuali di una storia che sarà, in seguito, ben più ampia). Come detto, la volontà di tracciare un elemento di continuità narrativa in contesti temporali così diversi, dopo l'esperienza comune della guerra partigiana, che avrebbe dovuto trasformare gli animi di chi l'ha vissuta, ci mostrano come un evento in sè di ribellione popolare sia stato "incanalato" e "istituzionalizzato", dando l'illusione della vita "pacifica"e "democratica" e comportando un individualismo alienante e un cambiamento ideologico solo apparente. Film sottile e di testa.

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