Review - We Want Sex

                                         



 5 su 10

Non ho una gran passione per Nigel Cole. A dire il vero più che un tocco british in lui vedo una componente volgarotta notevole e una stantia ripetizione di clichè, di storie già viste, di "scandali" innoqui e poco altro. Inoltre nella sua scrittura noto un immobilismo "piacione" irritante e anche maldestramente nascosto. Non ho apprezzato il suo "Calendar Girls", così come ho trovato numerosi difetti nell'impostazione di "L'erba di grace", il film che gli ha dato fama e consentito di lavorare con attori hollywoodiani, in episodi poco fruttuosi (e addirittura meno riusciti e noti). "We Want Sex", titolo/slogan senza capo nè coda scelto dai distributori italiani per intercettare un pubblico più ampio (non che fosse proponibile l'originale "Made in Dagenham" che avrebbe incontrato difficoltà di comprensione per via della scarsa conoscenza degli eventi legati alla emancipazione sociale della donna inglese), è il suo ultimo lavoro, direttamente legato ai suoi predecessori. Una caratteristica che ritrovo in tutti i film british del regista è la partenza brillante, il soggetto interessante e parzialmente originale in termini di scelta di singole storie effervescenti e che vogliono ribaltare il puritanesimo comune. E quest'aspetto è tutt'altro che limitante. I problemi sorgono quando la storia è già partita e tende a perdersi tra strade trite e ritrite, con pecche notevoli come il facile sentimentalismo, una sorta di patetismo puro, un femminismo antiquato e la solita lotta/battaglia, che sia a favore del corpo nudo di anziane donne per scopi benefici, a favore della legalizzazione della droga o meglio della comprensione di chi è costretto a spacciarla, a favore della parità salariale. L'ottica è tendenzialmente progressista (e condivisibile in toto), ma c'è una naturale evoluzione della storia che ha un che di stucchevole, di utopico nella sua realtà, di rassicurante, nonostante il riferimento a precisi avvenimenti, seppure con una ricostruzione non totalmente attendibile. Il lieto fine, piuttosto scontato, viene sovraccaricato da momenti topici di affermazione personale e di manifestazione plateale del proprio pensiero. E così come le donne da calendario si trovavano ad esporre il loro comportamento davanti alla loro associazione centrale femminile, sostenendo la battaglia contro la leucemia, a cui destinare i fondi, dopo la dipartita del compagno di una protagonista, così la battagliera operaia si propone davanti ad un pubblico maschile di sindacalisti con un appello accorato in cui si usano terminologie molto banali per convincere l'uditorio, determinando il voto a favore e il sostegno per continuare la battaglia contro la Ford. Un'altra caratteristica solita e solida del regista è la coralità del racconto, con alcune leader-protagoniste (di norma le attrici più note) e una serie di caricature da piccolo villaggio inglese a fare da sfondo. Se in "Calendar Girls" Helen Mirren e Julie Walters erano le stelle, qui c'è una vera star della commedia inglese come Sally Hawkins, con il profilo aquilino, contornata da due brave interpreti che, in modo diverso, la completano, Miranda Richardson, nei panni della battagliera Barbara Castle, ministro laburista, e Rosamund Pike, moglie dimessa, nonostante la sua capacità intellettuale. Nella pellicola d'esordio c'era Brenda Blethyn, altro nome altisonante capace di riempire la scena. Cole fa quindi uso di interpreti notevoli, a cui affianca ottimi comprimari, come lo storico Bob Hopkins, che fa un pò da pigmalione della comedy britannica ormai. E da qui, ingredienti consueti alla mano, costruisce il film, che è un pò commedia, un pò dramma, orchestrato seguendo passaggi facilmente intuibili e con una sceneggiatura standar. Magari, come in questo caso, mostra un'attenzione notevole alla ricostruzione scenografica, ma perde l'essenza delle cose e cade troppo spesso nella banalità pura, ad uso e consumo di un pubblico che non chiede mai nulla di diverso.

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