Review - L'illusionista (L'illusionniste)







9 su 10

La differenza tra un film, per quanto riuscito sia, e un'opera d'arte a tutto tondo si può cogliere appieno nello splendore della costruzione visiva di Sylvain Chomet, un regista unico nel nostro panorama, che traspone su un piano animato storie di desolazione umana e di piccolezza ammaliante. Il suo è un cinema popolato di piccoli eroi, di rimasugli del passato, di antiquariato, dalla "bicicletta" di "Appuntamento a Belleville" al cilindro dell'Illusionista. L'incipit è un raccordo al vero, nel suo bianco e nero che riempie di monotona rassegnazione la scena e diventa espressione dell'atteggiamento affranto del protagonista. Il mondo di Chomet è un mondo in costante evoluzione, dove il piccolo uomo è costretto prima o poi a fare i conti con il mondo esterno, contro i cambiamenti sociali che ne minano l'esistenza. L'immagine del "mago-illusionista" diventa un doloroso ma tenue simbolo dell'imbarbarimento culturale e, anche, un evidente deterrente del fare artistico, progressivamente sostituito da altre forme d'arte più giovanili, meno elitarie, meno ordinarie. E così, il suo non è che un vagabondare verso la fine, verso lidi lontani, verso scelte diverse. Chomet dipinge la caduta dell'uomo-artista, e dell'arte di un certo periodo, mirando, appunto, al preciso momento di svincolamento, di cambiamento del gusto del pubblico. L'illusionista è anche Melies, il padre del cinema fantastico, dimenticato dopo una carriera gloriosa ma breve. Il pubblico va alla ricerca del "nuovo" e il vecchio, rappresentato dall'immersione fantastica e magica, viene cancellato. Basti pensare alle ultime parole del protagonista prima di andare via, su una lettera bianca oppure alla bottega antiquaria che vende il pupazzo di un ventriloquo in miseria. Immagini di rara poesia, con un gusto letterario fortissimo, limitato, però, dal quasi mutismo della pellicola, che, oltre all'inizio e a qualche breve scambio di battute nel corso del film, è completamente fatta di silenzi comprensibili più delle parole. E' lo stratagemma che aiuta Chomet a definire una poesia tutta sua, fuori dall'ordinario, di visione e immediata tensione introspettiva per lo spettatore. La partecipazione, infatti, non è mediata dall'uso di parole fuorvianti, ma sta tutta nell'empatia facile con i protagonisti. Anche l'introduzione del personaggio della ragazza povera, una sorta di "piccola fiammiferaia" che viene da lontano, è un espediente ottimo, per sottolineare il carattere paterno dell'uomo. E l'immagine finale, con il dispiacere negli occhi di lei, è una grande vittoria del cuore. Così come la sua crescita. "L'illusionista" è un'opera d'arte che riflette sull'arte, sull'uomo, sulla solitudine, sulla "vecchiaia" intesa come estraneità al mondo dominante. Le immagini parlano da sole, ascoltate con attenzione e la commozione sarà facile, immediata, così come il gusto del recupero storico potente. Chomet trae lo script da un progetto rimasto incompiuto di Tati, e la sua mano si sente soprattutto nel carattere paterno tra l'illusionista-mago e la ragazza povera.


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