Review - Bal






Ha vinto L'Orso d'Oro a Berlino ed è il candidato turco agli Oscar 2011. E' diretto da Semih Kaplanoğlu, che non è al suo esordio. "Bal", infatti, chiude la trilogia a ritroso sul personaggio Yusuf, già presente nelle precedenti opere del regista, "Yumurta" e "Süt", che cercheremo di recuperare. La storia del cinema è ricca di figure in evoluzione, che siano caratteri o attori condotti per mano nel cammino della vita da un regista-vate (mi viene in mente l'eclatante caso di Truffaut con Jean-Pierre Léaud, presente in una pentalogia del regista a lui dedicata/ispirata). Kaplanoğlu sceglie una strada meno facile e più ripida: parte dallo Yusuf  maturo, passa per quello in formazione e arriva all'infanzia. Per le tre fasi della vita, il regista identifica un diverso elemento rappresentativo. I tre elementi sono, in sequenza, "Uovo", "Latte" e "Miele" e si fanno mediatori delle tre tappe diverse, costituendo l'essenza, in un modo o nell'altro, delle stesse. "Bal" comincia con una lunga inquadratura in campo medio statica e fissa in cui domina la visione naturalistica di una foresta intricata. Compare un uomo ed un cavallo. La resa è asciutta, niente parole, soltante il sibillio degli uccelli e qualche leggero movimento delle fronde degli alberi. Da li in poi, in pochi attimi, si mostra una scansione narrativa non conclusa, parte fondamentale e con funzione introduttiva per il film. L'uomo sale su un albero con una fune, che si spezza e rimane sospeso nel vuoto. L'eccellenza del regista sta nella sua capacità di creare un raccordo di inquadrature di diverso campo, oscillando, in pochi secondi, dal campo lungo al primissimo piano, in maniera ritmica, e facendo scorgere nell' assenza vocale dell'uomo, il dominio dei soli suoni naturali, evidenziati con costanza. La sequenza si conclude per lasciare spazio al titolo, "Bal", "Miele", l'elemento associativo del film, in un'ottica minimalista. Un'altra caratteristica della pellicola che emerge immediatamente è il suo tono volutamente dimesso e la sua problematicità. Nel piccolo Yusuf (interpretato da uno scricciolo  che si chiama Boras Atlas e che è il fulcro interpretativo della pellicola), si ravvisano un insieme di  aspetti tipicamenti fanciulleschi e altri di profonda inquietitudine. Un'inquietitudine difficile da comprendere, legata anche alla scarsa propensione del bambino all'apprendimento scolastico, ma anche dovuta a fattori diversi. Il film propone il tema dell'infanzia a tutto tondo, delineando un ritratto-compendio delle gelosie, dei silenzi, dei sogni, delle azioni-reazioni, dei timori, dei viaggi mentali, delle credenze di un bambino, uniti ad un bisogno di affetto diretto e amichevole (il padre è una sorta di mito, con la sua attività a stretto contatto con la natura). E' un film in cui ogni elemento, dalla fotografia, al suono, dal montaggio alla sceneggiatura, è amalgamato nella definizione di un'atmosfera che è insieme opprimente e magica, solitaria e muta, come quella di un qualsiasi essere umano. Il film trova la sua perfetta sintesi tra istanza narrativa e necessità di resa atmosferica, che insieme includa esoticità, poesia e personalissimo fare cinematografico. Il tema della presenza/assenza diventa il vero cardine della seconda parte e tutti gli elementi formali del linguaggio cinematografico tornano alla ribalta, sussurrati, fino ad commovente esito, con l'abbandono al sonno del bambino sulla radice di un grande albero. Ancora l'iimmobilismo, ancora un quadro statico, come quello iniziale, immerso nei suoni naturali.

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