Jafar Panahi - L'arte non può essere imprigionata


La condanna a sei anni di carcere e 20 anni di divieto nel girare film rischia di essere una delle epurazioni più drammatiche e ingiuste degli ultimi anni per un artista. Il caso di Jafar Panahi, regista premiatissimo, che non realizza una vera opera dal 2006, anno di uscita di "Offside" (a parte il corto "The Accordition") è esemplificativo del clima politico che si respira nell'Iran odierno, con i diritti umani calpestati. Oltre a sollecitare, in ogni modo, la presa di coscienza della situazione individuale di un regista accusato (e condannato) per protesta contro l'attuale sistema governativo del paese, con relativo impegno al sostegno della libertà di opinione umana, fondamento costitutivo della dignità di una persona, e oltre a riferirci, in particolare, alla libera manifestazione artistica (il regista è stato accusato di aver girato un film sulle manifestazioni popolari contro il leader Ahmadinejah, la cosiddetta "Rivoluzione Verde"), ci preme far presente la situazione generale di un paese molto lontano dalla democrazia basilare. Panahi, di cui era già stata sollecitata la liberazione in più sedi, come al Festival di Cannes da un'emozionatissima Juliette Binoche, poi avvenuta tramite cauzione, non deve vivere, per le sue opinioni e la contrarietà al regime, nel "cerchio", come quello del suo film, della prigione, che immobilizza ogni possibilità umana, con un altro provvedimento, il divieto ventennale di direzione di un film, che è un evidente messaggio che riduce la manifestazione artistica ad essere serva di un potere ademocratico. Quel "cerchio" necessita di un'apertura, e di una mobilitazione internazionale. Per Jafar e per un popolo intero.

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