Stasera in Tv su SkyCinemaFamily alle 21,00 --I love shopping



Avete presente un abito Prada o, ancora più proficuamente, l’ultimo paio di pantaloni in qualche strano anfibio della collezione Hermès, magari abbinati ad un gilet minimal di color carne, quasi da identificarsi con le forme nude di un corpo d’alabastro, capelli Uptown-style anni ’60 ed un paio di Jimmy Choo? Adorate Burberry più del suono di un groove caraibico? Sareste disposti a spendere la quasi totalità del vostro stipendio da segretaria di un aitante avvocato o da giornalista di una pubblicazione settimanale sul risparmio e sul mondo dell’economia per dedicarvi all’acquisto compulsivo di anellini Cartier, di bracciali Rolex, o dell’ultima penna glitterata e “diamantata” della pluriennale Mont-Blanc? Quante carte di credito possedete? Avete l’abitudine di agganciare la vostra nemica acerrima di corso, unica disponibile al momento, nell’intento di passare per l’ennesima volta davanti al negozietto che vende qualche assaggino della collezione Louis Vutton, in modo da non suscitare un’ilarità sogghignante della commessa che vi ha visto passare sette volte su sette, da soli, nell’ultima settimana? Siete perennemente in rosso? Allora, due sono le cose: o siete l’incarnazione di Rebecca, la Rebecca di Kinsella, la “Shopaholic” di New York o, più proficuamente, e prendetelo con il beneficio d’inventario, nascondete nell’atto di sperperare ogni vostro guadagno, una certa insoddisfazione. Ed è naturale essere insoddisfatti (chi non lo è?!), sarebbe da evitare, tasche non permettendo, comprare la borsa Pucci. Non cadrò nella trappola di criticare il film per l’ottica che esibisce. Il problema di “I love shopping” è altrove, nella scrittura dei personaggi, nella poca identificazione con il libro (o meglio libri per ragazze) da cui è tratto, in un gusto troppo kitsch per essere credibile, anche a livello di vestiario. L’aspetto più compromettente è la citazione di ogni paradigma modaiolo che si sia sviluppato a livello cinematografico. Ricordate Andy, “il Diavolo veste Prada”.Rebecca è una giornalista che cerca di approdare ad Alette, la rivista per eccellenza dl settore, ma deve passare per la solita iniziazione ad nello stesso gruppo editoriale, solo che per un settimanale di economia. La “ragazza dalla sciarpa verde” scrive una rubrica di semplificazione economica, peccato che non sappia la differenza tra costo e ricavo, tanto più tra Keynes e i fisiocratici, per non parlare della curva IS-LM. Compie, all’apparenza, un percorso speculare a quello di Andy. Al di là del character, il problema è interpretativo: Anne Hathaway non è Isla Fisher, e ciò va tutto a beneficio di Anne. Caciarona e catastrofica, Rebecca assomiglia alla Bridget Jones inglese della Zellwegger. E siamo un palmo di mano sopra il secondo capitolo, ma molto al dì sotto della ruvidità provinciale del primo Bridget. C’è, poi la bionda Leslie Bibb che interpreta lo stoccafisso dalle game lunghe e fa il verso ancora al “diavolo”, non avendo un minimo della simpatia e della bravura di una grandissima Emily Blunt. E la neo-Streep è la Scott Thomas, che, in realtà, appare più umana ma meno sfaccettata di Miranda. Si ride, qualche volta, di gusto nella prima parte, ma poi si scivola sullo stucchevole. Splendidamente vuoto, passa all’implicare una tesi moraleggiante ma qui cade, senza appello. Clichè a volontà, va detto che, privato di ogni parametro tecnico, e soprattutto della soundtrack godereccia, lascia piuttosto spensierati. Anche se John Goodman è un po’ fuori posto.E il regista, l'Hogan delle commedie anni '90, è diventato più commerciale del solito.

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