L’altra faccia di Beverly Hills (1998)



Beverly Hills, gli anni ’70 sono cominciati da poco. Nuove generazioni sputano su un piatto unto le loro idee, non c’è asservimento sociale, né servilismo famigliare. In realtà, il livellamento cetuale non è stato scalfito, almeno negli United States. E la metafora del sogno americano è sempre in piedi. Nascono dei movimenti giovanili, soprattutto, di valori comunitari, ma il contesto geostorico-politico non permette un capovolgimento di obiettivi, per la famiglia media, bassa o alta, per l’Americano standard, l’employeer aziendale. E così lo sdoganamento del sesso libero, la nuova dimensione priva di ruolo nell’ambito famigliare, l’acquisizione di nuovi modelli comportamentali, umani, spinti dalle scienze e dal progresso tecnologico, non corrispondono ad una strutturazione economica di notevole diversificazione. Le scuole sono per lo più private, a Beverly Hills, e c’è la solita, quasi innaturale, sequenza di lineari rampicanti, una macchina davanti ad un garage e l’ennesima villa. Nasce il gossip, lo scandalo di Charles Manson è impresso su una maglietta. Il mondo diventa merchandaising, l’assassino celebrità. Non c’è molta differenza con Hollywood Babilonia, con i servizi di cronaca nera dei tempi che furono, ma è il mezzo televisivo che trasforma, eludendo un diritto di cronaca sacrosanto, l’azione nell’essenza della persona. L’epoca del divismo è sottolineata dalla passione per la recitazione del giovane Eliott (Kevin Corrigan) , un po’ stupido, impertinente ma tanto uniformato da vivere in totale simbiosi con il fratello minore, di casa, che tenta di interpretare “Guys and Dolls”, cercando di emulare il Brando di tanti lustri fa. La vera protagonista della pellicola, che è in parte autobiografica, è Vivian (Natasha Lyonne), un seno da poco cresciuto, i primi motivi di turbamento adolescenziale, il primo reggiseno, comprato in ritardo mostruoso insieme al padre divorziato, le mestruazioni, il primo rapporto sessuale, il vibratore di prima maniera, e l’insana vicinanza della cugina Rita (una fantastica Marisa Tomei che non sbaglia un colpo), un pagliaccio umano, con un bel corpo, una certa simpatia comunicativa, e notevoli problemi di droga alle spalle. Quando lo psicofarmaco diventa una routine, per intenderci. A ciò si aggiunga un padre di una certa età, finto-lavoratore, che cerca di vivere sgraffignando moneta al fratello (Alan Arkin è un maestro di modulazione di stile e una certezza dell'indie). Il tutto entra a far parte del concentrato cinematografico che la regista e sceneggiatrice Tamara Jerkins ci propone. E non c'è una vera pecca, ma grande brio, consapevolezza, ottima capacità di attivare l'amarcord e una sceneggiatura coerente e accattivante. Il talento della regista che ci ha conquistati definitivamente con la “Famiglia Savage”, è proprio quello di delineare dei personaggi non stereotipati, riuscendo ad affinare uno stile riconoscibile, quasi miracoloso nell'ottica di limitazione delle registe donne. Un piccolo indie-film che suona come un gradevolissimo esempio autoriale da tenere d'occhio.

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