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Io e Marley


Tratto da un testo sfruttato come prodotto di marketing con diversi target potenziali, esempio della new-editory colossale, “Io e Marley” è un film trascurabile, a volte svogliato nel dare una pienezza alle azioni attraverso i sentimenti, a volte infestato di zucchero, senza sapore. Varie sono le problematiche che calzano a pennello. In primo luogo, il film sconta la derivazione dal testo ed, in particolare, la sua impostazione cronologica. Qualora si definisca un rigoroso ordine temporale, un modo per ovviare all’abusata (anche se indiretta) tecnica diaristica, è quello di condensare l’intreccio in una duplice prospettiva: al servizio della pura comicità o della relativa profondità comica. L’elemento di disomogeneità, oltre che dalla impossibile conciliazione di intenti comici di bassa lega ed intenti drammatici, è segnato anche da altre argomentazioni: è chiaro, fin dal titolo, quali siano i personaggi dominanti (l’Io narrante del padrone), in secondo piano il cane e la consorte, e poi una serie di characters incidentali. Tale definizione scaturisce da una semplice constatazione: il contorno di sceneggiatura (si pensi alla aggressione della vicina di casa o al ruolo dei direttori delle testate giornalistiche in cui l’uomo lavora) è funzionale solo al passaggio da un luogo ad un altro, mette in moto l’azione, altrimenti statica, e permette solo parzialmente di legare la storia della famiglia con l’andamento di altre variabili esterne. Come detto, i protagonisti sono solo due, e la dimensione caratteriale degli altri è quasi del tutto assente, con grande perdita di un possibile valore aggiunto, che è invece è solo incidentale. Pensiamo alla funzionalità dei bimbi, che paiono incollati solo per rispettare il testo originario e trovano un senso solo nella scena finale, eccessivamente melensa. Proprio in ragione di questa caratteristica di scrittura, perché allora relegare alla parte di comprimario due attori come Alan Arkin e Kathleen Turner? Si dirà: non c’è protagonista o non protagonista, c’è bravura nell’interpretare un ruolo, indipendentemente dal numero e dalla dilazione delle scene. Niente da discutere su questo, più discutibile è la caratterizzazione dei personaggi, che limita le capacità recitative. Apriamo una postilla sulle interpretazioni: Owen Wilson è particolarmente adatto alla commedia, anche se preferiamo quando sguazza dalle parti di Wes Anderson, Jennifer Aniston, per ora, continua con la carta della “fidanzatina d’America”. Va detto che Julia Roberts, in parte, Reese Witherpoon, nonostante l’Oscar, e soprattutto Meg Ryan, non hanno avuto vantaggi di carriera, tantomeno reso un servizio memorabile alla cinematografia, tracciando quest’iniziale strada, con difficoltà a cambiare l’immaginario della gente in ruoli diversi. La Aniston è solo estremamente simpatica, ma non sembra avere grandi potenzialità. Forse dovrebbe puntare sulla naturalezza. Le beffe di Marley, l’accentuazione di ogni evento solo in corrispondenza ad un’eventuale esagerazione delle marachella del Labrador al fine di generare riso, ben poco si addicono al carattere umano della vicenda, fino ai suoi sviluppi finali. Il contrasto è troppo stridente. Anche per un film.

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