Guadagnino, parliamoci chiaro, sembra antipatico da morire. Nelle sue interviste, nei contenuti speciali del dvd ex nolo, dice due concetti in mille parole complesse, scollegate, pretenziose, da cineasta elitario, che deve dimostrare prima di tutto la sua preparazione e poi la sua arte. "Io sono l'amore" è una scommessa in fin dei conti parzialmente riuscita, a differenza dei suoi precedenti lavori, un prodotto sufficiente. Forse perchè è l'incarnazione formale di un mondo pretenzioso, e addizionando stile e contenuto, l'omogeneità, per quanto a volte stucchevole ed anacronistica, rende l'opera fluida. Ancora Barbara Alberti alla sceneggiatura, che scrive, nei suoi pregi e difetti, il solito romanzo ottocentesco trasposto ai nostri giorni. La storia è allusiva, basata sul conflitto di classe, sui conflitti famigliari, anche se la piega drammatica è un fulmine a ciel sereno, giacchè le scissioni socio-famigliari sembrano essere sanate nell'ottica monetaria, che domina imperante. O almeno, sembrano essere congelate, come tutto il film. Ritornano le morbosità, le patinate scene di sesso, il rapporto semiedipico, l'omoaffettività. Praticamente un libro di Freud immerso nel mondo di Svevo. Ma, proprio il carattere ottocentesco, unito ad una rielaborazione formale incline al Kammerspiel, con l'attenzione maniacale ai particolari fisici, ai minimi dettagli di una Milano piuttosto novecentesca, sfarzosa ed elegante, quanto eterea e crudele nell'espressività dei suoi monumenti, permette di evidenziare un carattere, quello dell'originalità progettuale, che si discosta dai modelli in voga nell'attuale cinema italiano. La freddezza, l'antipatia dilagante, la recitazione che fà uso di clichè ma si affida, in certi casi, al semiconscio, sottolineata dai visi bianchi ed efebici di molti attori, diviene l'antidoto alla sgradevolezza, alla mancanza di finezza del modello cinematografico centro-meridionale imperante. Per dirla più chiaramente, tempo fa auspicavamo la realizzazione di un progetto che potesse, in parte, descrivere il nord del Paese, e "Io sono l'amore" ci sembra un tentativo, per quanto improbabile, coraggioso, soprattutto in relazione alle origini del regista. Certo i peronaggi sono costruiti con una caratterizzazione senza mordente, la storia non appassiona, l'autocompiacimento del regista è sopra ogni cosa, così come la cinefilia citazionista, ma l'aspetto tecnico e le interpretazioni sono molto convincenti. Mi riferisco non solo alla musa Tilda Swinton, ma anche a Flavio Parenti, che ricopre il ruolo dell'agnello in una gabbia di lupi, ed è l'unico elemento emozionante ed empatico della narrazione. La Rohrwacher è brava, come sempre, ma ormai le sue scelte stanno cominciando a stancarci e a ripetersi. Il cast include Gabriellini-Ovosodo, Diane Fleri, bella e duttile, Gabriele Ferzetti, sempre bravo sia nella recitazione che a sbagliare regista negli ultimi anni. Una visione potrebbe lasciare l'amaro in bocca o incontrare il gusto dei lettori di Thomas Mann. Mi pongo nel mezzo, con tanti difetti e qualche pregio.
Guadagnino, parliamoci chiaro, sembra antipatico da morire. Nelle sue interviste, nei contenuti speciali del dvd ex nolo, dice due concetti in mille parole complesse, scollegate, pretenziose, da cineasta elitario, che deve dimostrare prima di tutto la sua preparazione e poi la sua arte. "Io sono l'amore" è una scommessa in fin dei conti parzialmente riuscita, a differenza dei suoi precedenti lavori, un prodotto sufficiente. Forse perchè è l'incarnazione formale di un mondo pretenzioso, e addizionando stile e contenuto, l'omogeneità, per quanto a volte stucchevole ed anacronistica, rende l'opera fluida. Ancora Barbara Alberti alla sceneggiatura, che scrive, nei suoi pregi e difetti, il solito romanzo ottocentesco trasposto ai nostri giorni. La storia è allusiva, basata sul conflitto di classe, sui conflitti famigliari, anche se la piega drammatica è un fulmine a ciel sereno, giacchè le scissioni socio-famigliari sembrano essere sanate nell'ottica monetaria, che domina imperante. O almeno, sembrano essere congelate, come tutto il film. Ritornano le morbosità, le patinate scene di sesso, il rapporto semiedipico, l'omoaffettività. Praticamente un libro di Freud immerso nel mondo di Svevo. Ma, proprio il carattere ottocentesco, unito ad una rielaborazione formale incline al Kammerspiel, con l'attenzione maniacale ai particolari fisici, ai minimi dettagli di una Milano piuttosto novecentesca, sfarzosa ed elegante, quanto eterea e crudele nell'espressività dei suoi monumenti, permette di evidenziare un carattere, quello dell'originalità progettuale, che si discosta dai modelli in voga nell'attuale cinema italiano. La freddezza, l'antipatia dilagante, la recitazione che fà uso di clichè ma si affida, in certi casi, al semiconscio, sottolineata dai visi bianchi ed efebici di molti attori, diviene l'antidoto alla sgradevolezza, alla mancanza di finezza del modello cinematografico centro-meridionale imperante. Per dirla più chiaramente, tempo fa auspicavamo la realizzazione di un progetto che potesse, in parte, descrivere il nord del Paese, e "Io sono l'amore" ci sembra un tentativo, per quanto improbabile, coraggioso, soprattutto in relazione alle origini del regista. Certo i peronaggi sono costruiti con una caratterizzazione senza mordente, la storia non appassiona, l'autocompiacimento del regista è sopra ogni cosa, così come la cinefilia citazionista, ma l'aspetto tecnico e le interpretazioni sono molto convincenti. Mi riferisco non solo alla musa Tilda Swinton, ma anche a Flavio Parenti, che ricopre il ruolo dell'agnello in una gabbia di lupi, ed è l'unico elemento emozionante ed empatico della narrazione. La Rohrwacher è brava, come sempre, ma ormai le sue scelte stanno cominciando a stancarci e a ripetersi. Il cast include Gabriellini-Ovosodo, Diane Fleri, bella e duttile, Gabriele Ferzetti, sempre bravo sia nella recitazione che a sbagliare regista negli ultimi anni. Una visione potrebbe lasciare l'amaro in bocca o incontrare il gusto dei lettori di Thomas Mann. Mi pongo nel mezzo, con tanti difetti e qualche pregio.
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