Fortapàsc


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L’opera di Marco Risi, incentrata sulla figura di Giancarlo Siani, l’unico giornalista ucciso dalla camorra, ha molti punti forti, e qualche inevitabile caduta. Ha un valore emozionale che trascende la mera costruzione tecnica, e rende omaggio alla figura, senza farne un panegirico, un santino da appendere al muro. Quello che si nota maggiormente è il grande ancoraggio ad un’etica lavorativa, evidente nella passione accesa e nel riferimento ad un esatto modus operandi nell’attività di giornalista “abusivo”. Siani sembra credere in un’informazione d’inchiesta, in grado di essere militante nel suo sostegno a valori propri, ma non per questo, necessariamente, di parte. Un tipo di informazione che comporta la totale abnegazione al “vero”, o all’ipotesi che sta in piedi, e mira, attraverso la sua intraprendenza e vitalità, al cambiamento di un sistema non più accettabile. La mano del regista ci sembra, in quest’ aspetto, sicura. Siani non agisce in maniera diretta per il cambiamento, ma garantisce un’onestà intellettuale, senza eroismi eccessivi nella sua azione, che ha come finalità un criterio preciso, granitico, coerente, nell’attività lavorativa: l’asservimento al proprio compito e la richiesta che ognuno, in controtendenza alla minaccia evidente o indiretta, faccia quello che una condotta morale, o meglio, in una visione di tipo strumentale, etica, richiede, con i propri mezzi e i rispettivi rischi. La mobilitazione non è eroica, ma un semplice dato di civiltà. Non per questo manca la configurazione umana, che, anzi è dominante, ma non comporta una totale reciprocità mimetica in aspetti privati. La vita privata, le amicizie, l’amore per la sua donna con i relativi alti e bassi, la tipica preoccupazione di ogni madre per la salute del figlio, sono aspetti anche della nostra vita, ma non c’è quel peso oppressivo, e quel voyeurismo patinato e furbo che ci fa entrare quasi in simbiosi con tali scene, o meglio, con le dinamiche dei personaggi. Anche in questo senso, comunque il personaggio di Siani risulta piuttosto positivo, ma non assume quella visione declamatoria ed enfatica che avrebbe potuto, in un film italiano, essere l’unica via d’uscita sostenibile per un buon riscontro di platea. In questo, buona l’interpretazione di Libero de Rienzo, che dà un tocco preciso al suo personaggio, senza trasformarsi nel character. Il risultato non è sempre su livelli ottimali, ma la verità interpretativa supera di gran lunga la connotazione trasformista, e, anche se l’impatto potrebbe essere minore di molti attori hollywoodiani alla Sean Penn (soprattutto di Milk, per intenderci), si tratta di una forma di realismo rigoroso ma non esasperato, che potrebbe, come in passato, essere la carta vincente di un buon cinema italiano. Se c’è un ottimo Toni Servillo, che incarna un’interpretazione maniacale, ha grande compattezza l’imperfezione vocale (che è un grande pregio), la relativa semplicità di un de Rienzo, che si mostra del tutto adeguato. E’ altrettanto meritevole il fatto che per buona parte del tempo ci si esprima in un italiano corrente, con qualche locuzione dialettale. Gli occhi di Siani alla fine, in via Vomero, davanti agli assalitori, e l’intera espressione, non hanno nulla di scontato. Le pecche ci sono. Se da un lato umano, si dice più di quello che si dovrebbe per un piano comprensivo, piuttosto difficoltosa è l’analisi camorristica, che non perde lo stereotipo, anzi lo accentua, forse troppo. E’ proprio su questo versante che il film non funziona. L’inizio è incerto, molti personaggi secondari troppo sopra le righe. Ernesto Mahieux ormai è una parte, non un vero attore.

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