La sopresa arriva da un film minuscolo e poco pubblicizzato. "City Island" è completamente fuori di senno. E, nel suo essere strafumato, è una presa in giro del cinema e di noi spettatori. In poche parole, in modo molto chiaro, esplica buona parte degli elementi che il grande schermo usa per ammaliarci e colpirci. In una splendida sequenza, il confronto tra Alan Arkin e un suo alunno ad una scuola di recitazione, si riesce a dubitare e a schiaffeggiare la recitazione di Marlon Brando, con le pause estenuanti e il tocco maniacale di Strasberg e affini dietro ogni volto. "City Island" non si limita al passato, ma riesce a problematizzare molti elementi del cinema odierno. Prende in giro il gangster-movie che scimmiotta i vecchi classici, gli intrecci senza cognizione di causa e alquanto improbabile alla Resnais, i film indipendenti, con il ragazzo più piccolo ossessionato dalle donne fuori forma, così come alcuni demenzial-nerd-movie. L'intero sistema attoriale/filmico è nella dinamica dell'intreccio. La scuola di recitazione a cui partecipa la guardia carceraria Andy Garcia è un pò la molla delle dinamiche, che corrispondono anche all'incontro con la sua "manager" e amica attrice, che vive davanti ai casting per ottenere una parte ed è lontana da tempo dai figli. Emily Mortimer fà un pò Juliette Binoche, non trovate? Ancora, il casting è una scelta senza nesso e senza senso, di impressione. Il carcere non ha un benchè minimo aspetto di privacy burocratica. E' così che Vince Rizzo (mai nome più appropriato per Andy Garcia) conosce suo figlio. E la relazione arriva quasi alla tragedia, con una sequenza finale enfatica, commossa, ironica e soprattutto teatrale. Il film è un metateatro cinematografico, ma è anche un remake del classico cinematografico (Vi ricorda qualcosa "Il Padrino Parte 3"?), una presa in giro del "Metodo" di recitazione e dell'intero star-producer-director-system hollywoodiano. Ancora, c'è una battuta che fà comprendere come recitazione sullo schermo e nella vita siano talvolta la stessa cosa. La figlia di Vince è una spogliarellista perchè ha perso la borsa di studio, la moglie una donna eccentrica, nevrotica, istintiva, aggressiva (la bella Julianna Margulies), i rapporti si intrecciano, mentre l'unico mistero rimasto insoluto ai personaggi è del tutto chiaro per gli spettatori e vien voglia di dire: Ma ci fanno o ci sono? Semplicemente non fanno altro che recitare, con uno spettatore onnisciente dal principio, e loro che si trovano in forzatissime scelte di copione. Cos' come gli attori di altre pellicole, che sono costretti a girare in tempi diversi, non cronologici e che vanno a parare da un'emozione all'altra (Santo Montaggio!). il film è un'analisi delle strutture cinematografiche, con grazia, risate e buone interpretazioni. La regia è di Raymond De Felitta. Bello, in modo assurdo
La sopresa arriva da un film minuscolo e poco pubblicizzato. "City Island" è completamente fuori di senno. E, nel suo essere strafumato, è una presa in giro del cinema e di noi spettatori. In poche parole, in modo molto chiaro, esplica buona parte degli elementi che il grande schermo usa per ammaliarci e colpirci. In una splendida sequenza, il confronto tra Alan Arkin e un suo alunno ad una scuola di recitazione, si riesce a dubitare e a schiaffeggiare la recitazione di Marlon Brando, con le pause estenuanti e il tocco maniacale di Strasberg e affini dietro ogni volto. "City Island" non si limita al passato, ma riesce a problematizzare molti elementi del cinema odierno. Prende in giro il gangster-movie che scimmiotta i vecchi classici, gli intrecci senza cognizione di causa e alquanto improbabile alla Resnais, i film indipendenti, con il ragazzo più piccolo ossessionato dalle donne fuori forma, così come alcuni demenzial-nerd-movie. L'intero sistema attoriale/filmico è nella dinamica dell'intreccio. La scuola di recitazione a cui partecipa la guardia carceraria Andy Garcia è un pò la molla delle dinamiche, che corrispondono anche all'incontro con la sua "manager" e amica attrice, che vive davanti ai casting per ottenere una parte ed è lontana da tempo dai figli. Emily Mortimer fà un pò Juliette Binoche, non trovate? Ancora, il casting è una scelta senza nesso e senza senso, di impressione. Il carcere non ha un benchè minimo aspetto di privacy burocratica. E' così che Vince Rizzo (mai nome più appropriato per Andy Garcia) conosce suo figlio. E la relazione arriva quasi alla tragedia, con una sequenza finale enfatica, commossa, ironica e soprattutto teatrale. Il film è un metateatro cinematografico, ma è anche un remake del classico cinematografico (Vi ricorda qualcosa "Il Padrino Parte 3"?), una presa in giro del "Metodo" di recitazione e dell'intero star-producer-director-system hollywoodiano. Ancora, c'è una battuta che fà comprendere come recitazione sullo schermo e nella vita siano talvolta la stessa cosa. La figlia di Vince è una spogliarellista perchè ha perso la borsa di studio, la moglie una donna eccentrica, nevrotica, istintiva, aggressiva (la bella Julianna Margulies), i rapporti si intrecciano, mentre l'unico mistero rimasto insoluto ai personaggi è del tutto chiaro per gli spettatori e vien voglia di dire: Ma ci fanno o ci sono? Semplicemente non fanno altro che recitare, con uno spettatore onnisciente dal principio, e loro che si trovano in forzatissime scelte di copione. Cos' come gli attori di altre pellicole, che sono costretti a girare in tempi diversi, non cronologici e che vanno a parare da un'emozione all'altra (Santo Montaggio!). il film è un'analisi delle strutture cinematografiche, con grazia, risate e buone interpretazioni. La regia è di Raymond De Felitta. Bello, in modo assurdo
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