E' il ritorno atteso di Johnnie To, l'autore cult e tarantiniano che viene dal Sol Levante. "Vendicami" è un film chiave per la riconciliazione del moderno e del passato. O almeno dovrebbe esserlo. In realtà, pur essendo un prodotto hard-boiled complessivamente buono, svolge una funzione diversa. Mostra, infatti, la realtà cinematografica odierna in cui l'arma vincente anche per molti cineasti di prestigio è la citazione, l'autocitazione e il remake. Non a caso, Tarantino ama Johnnie To. E' una sua replica made in Japan. Almeno a livello contenutistico. Per quanto riguarda lo stile, va detto che To predilige una messa in scena meno gridata, più ambigua nei contasti cromatici, più calda, anche in prevalenza di tinte scure. E' proprio lo stile della pellicola ad imporsi con forza, superando la facilità dello svolgimento di un soggetto che trae spunto da Melville (con Costello di nuovo protagonista e il passaggio di testimone da Alain Delon a Johnny Halliday, anche più bravo, nonostante qualche crepa di sceneggiatura). Il film mantiene intatta la sua componente noir senza però mancare di momenti di vuoto assoluto, spazi temporali che sembrano dilatati e tesi ad una concezione soprattutto estetica, riflessioni inserite in contesti di azione o precedenti all'azione stessa. Ma è proprio la complessità dell'intreccio, la mancanza di sfumature per i singoli personaggi, la ricerca del non banale, a rendere meno leggibile la storia. E la cosa potrebbe essere tollerata o apprezzata, se ci fosse un pò di personalità in più, che in realtà non è molto marcata, anzi si adagia troppo su sè stessa. Il film di Johnnie To è centrato sul tema della vendetta, ma manca un'analisi complessa, cosa che non sfuggiva certo a Melville. Tarantino a Venezia non l'avrebbe premiato. O forse Sì?
E' il ritorno atteso di Johnnie To, l'autore cult e tarantiniano che viene dal Sol Levante. "Vendicami" è un film chiave per la riconciliazione del moderno e del passato. O almeno dovrebbe esserlo. In realtà, pur essendo un prodotto hard-boiled complessivamente buono, svolge una funzione diversa. Mostra, infatti, la realtà cinematografica odierna in cui l'arma vincente anche per molti cineasti di prestigio è la citazione, l'autocitazione e il remake. Non a caso, Tarantino ama Johnnie To. E' una sua replica made in Japan. Almeno a livello contenutistico. Per quanto riguarda lo stile, va detto che To predilige una messa in scena meno gridata, più ambigua nei contasti cromatici, più calda, anche in prevalenza di tinte scure. E' proprio lo stile della pellicola ad imporsi con forza, superando la facilità dello svolgimento di un soggetto che trae spunto da Melville (con Costello di nuovo protagonista e il passaggio di testimone da Alain Delon a Johnny Halliday, anche più bravo, nonostante qualche crepa di sceneggiatura). Il film mantiene intatta la sua componente noir senza però mancare di momenti di vuoto assoluto, spazi temporali che sembrano dilatati e tesi ad una concezione soprattutto estetica, riflessioni inserite in contesti di azione o precedenti all'azione stessa. Ma è proprio la complessità dell'intreccio, la mancanza di sfumature per i singoli personaggi, la ricerca del non banale, a rendere meno leggibile la storia. E la cosa potrebbe essere tollerata o apprezzata, se ci fosse un pò di personalità in più, che in realtà non è molto marcata, anzi si adagia troppo su sè stessa. Il film di Johnnie To è centrato sul tema della vendetta, ma manca un'analisi complessa, cosa che non sfuggiva certo a Melville. Tarantino a Venezia non l'avrebbe premiato. O forse Sì?
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