La cosa giusta





Ho cercato di analizzare in dettaglio il film di Marco Campogiani, presentato al Torino Film Festival, prima edizione targata Gianni Amelio. Mi ha colpito, con qualche piccola velatura, per due ragioni. E' una pellicola sincopata, senza tregua, vorace nel disegnare un intreccio complesso. In questo senso, da una parte ha la caratteristica tipica del cinema italiano di oggi, ovvero la centralità primaria della scrittura, dall'altra porta al paradosso questa base di partenza, creando una commistione tra il cinefilo, l'autoriale e il commerciale, nelle sue più varie declinazioni. Campogiani si pone in modo originale tra due correnti antitetiche nel nostro cinema. Da una parte c'è l'autore. Si definisce autore, con una certa puzza sotto il naso, chi tocca temi alti. Anche se il tempo ci ha mostrato che questa classificazione è del tutto errata, si veda la vena "pessimista" dell'hollywoodiano Capra, che ha sempre garantito un "lieto fine" illusorio, nel nostro mondo, quando pensiamo alla pedagogia artistica (termine quantomai opinabile) tocchiamo sempre le corde sociali. Dall'altra c'è l'autore di commedie, fini a sè stesse o intelligenti, allusive del reale, con merchandaising e product-placement. Campogiani riesce ad evitare gli eccessi di ambo le parti e media in modo spiccato tra le due istanze. Parte da un soggetto con connotazione sociale: il disagio post-attentati che uno straniero vive nel nostro paese. La cosa che mi colpisce è la capacità di creare un intreccio che con il dramma, l'emarginazione, la sofferenza, non ha molto a che vedere. Perchè "La cosa giusta" è una commedia, un "on the road" non verso un luogo, ma verso l'altro. La coppia dei poliziotti Briguglia-Fantastichini è basata su un asse caro alla tradizione della commedia all'italiana, a cui si aggiunga una componente attualizzata e non stereotipata. E la comicità di una coppia si regge sistematicamente sulla diversità. Da una parte un giovane, studioso, sognatore e idealista (con fidanzata razionale), libero dal pregiudizio, pulito, dall'altro un ribelle di una certa età, con poco sprint, permaloso e eccessivamente fiducioso in sè stesso, con qualche tratto razzista. Briguglia ha il viso giusto, si dimostra all'altezza con movenze e un tono colloquiale, acquistando, sul finale, una consapevolezza più tangibile e reale. Ennio Fantastichini, come tutti gli attori con una certa esperienza, fa il gigione, talvolta eccedendo. E' una caratteristica vincente per il ritmo, meno per il personaggio. La coppia si costituisce quando c'è un caso specifico, riguardante un tunisino che ha scontato una pena detentiva per aver ospitato una coppia di terroristi. E, geometricamente, dalla retta si passa al triangolo. Ahmed Hafiene ha un viso espressivo, malinconio e pacificato. Il suo personaggio ha una levità estranea al contesto in cui si trova. Il regista, perciò, ribalta l'ottica del tema e porta a una riflessione meno moralizzante, più sfumata (da cui il titolo). Parte dal sociale e finisce al sociale. Ma descrivendo le storie di persone e di rapporti umani, non di ideologie generalizzanti e di freddezza asettica. Il merito più grande è la capacità di contestualizzare un discorso ampio ai singoli. Questo è l'altro punto di forza del film. Ed è un punto forza che è anche un tallone d'Achille. Infatti i dialoghi, soprattutto nella prima parte, non possono uscire fuori che da costruzioni un pò forzate, appaiono talvolta sospesi, in parte televisivi. D'altrocanto, è la freschezza che regge la sceneggiatura, firmata dal regista e da Giovanni Di Feo, insieme alla dinamicità e all'immediatezza. Un tentativo meno aderente al reale non avrebbe giovato. A conferma della duplicità e dell'originalità delle scelte, l'incontro tra convenzionale e non convenzionale è segnato da una certa attenzione alla dimensione ambientale, ritratta con dovizia. L'aspetto visivo, infatti, è quasi il controcanto della storia. Ha qualcosa che si allontana da essa, ma al contempo è inseparabile dal contesto. E' una dimensione atipica per la commedia, necessaria per come è strutturato l'intreccio. Buona la fotografia di Maurizio Calvesi. Non ho una buona competenza per definire il sonoro. Da alcuni punti di vista, il film paga, in termini monetari, una difficoltà di comprensione basilare che si pone nella distanza tra il tema e il suo svolgimento contenutistico. Infatti la dimensione brillante è, dal titolo e parzialmente dal trailer, offuscata dalla tematica sociale.


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