su SkyCinema1 alle 21,10
Il film di Arnaud ha dalla sua una serie rimarchevole di pregi. Ma ha un difetto che, per chi vi scrive, è determinante. Non ha un minimo di coinvolgimento emotivo. Osannato da molti come uno dei migliori film europei del decennio, candidato all'Oscar e vincitore di molti
Cesar, il Profeta di Arnaud è un pastiche di azione, introspezione, sogno, poesia, dura realtà. E in ognuno di questi aspetti è smaccatamente finto e quindi studiato. E' proprio la calibrata esposizione a più letture che non garantisce un'accezione emotivamente carica. Da parte dello spettatore, la capacità di immedesimazione è distante, il piglio a volte con l'uso della macchina a mano, volutamente documentaristico, lo stile profondamente fugace. Va detto che la regia di Arnaud è stupefacente, è una regia invisibile ma complessa, impostata come un sottotesto alla storia. Ma certe volte Arnaud sbaglia i tempi, dilatando o rallentando sequenze che sembrano interminabil o troppo fugaci. Di certo la sua aspirazione è coniugare il cinema d'autore con il cinema di intrattenimento. Solo che in questo colmare le due parti, finisce per eccedere in un verso o nell'altro. Quando si analzza la psicologia, molto è lasciato all'interpretazione di Rahim, in termine più prettamente autorale, come manifestazione intrinseca di ciò che si esprime senza una comunicazione diretta, ma al contempo si oggettivizza all'esterno l'interno mentale nella dimensione onirica o fantastica, come un film qualunque. C'è azione, talvolta sgranata e sanguinolente, violenta ma non impetuosa o scandalizzante, ma al contempo c'è una ripetitività della stessa che ne limita la portata. E' un film dove accade di tutto, ma non accade niente. E' un film di crescita interiore e di rinascita, ma anche di morte e di pietrificazione umana. E tutto scorre senza essere sviluppato a dovere, entrando con insistenza in elementi secondari e tralasciando lo sfumato e il concreto. Arnaud esprime un distacco che diventa anche il nostro. In qualche momento, la scintilla scatta e il Malik di Rahim ci sembra vicino, altre volte tutto prende una piega troppo razionale e meccanica per essere compresa del tutto. Se volessimo paragonare la pellicola ad una parola, dovremmo usare il verbo dondolare, in riferimento ad un lento passaggio di prospettiva, con un legame stretto al clichè che è l'asse portante, ed un oscillare continuo, che cade nel tedio anche per l'abnorme durata di 2 ore e mezza. 30 minuti in meno avrebbero giovato non poco. I pregi? Ogni aspetto che non è elencato nella recensione è pregevole, soprattutto l'interpretazione di Rahim, notevole. Qualche scelta musicale è un pò fuori tono. Il film è oggettivamente appetibile, ma soggettivamente distante. Si apprezza ciò che c'è, la visione vale la pena, ma non si riesce a non oscillare anche nel voto, dopo che l'altalena è andata di qua e in là. E per smettere di muovermi, c'è bisogno di fermezza, e l'unica femezza sta nell'equilibrio.
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