Crazy Heart



Crazy Heart è un film di "non-azione". Non è sceneggiatura dialogica, coerente, di ferro, ma è storia letteraria trasposta e sfumata. E' un film che si poggia completamente su due fattori: l'interpretazione e la musica. In secondo piano, la regia e le scelte fotografiche. Scott Cooper, all'esordio da director, riesce a donare un quid diversificato di elementi che non si reggono su ciò che accade, ma su ciò che si manifesta in sè stessi. Sposta il baricentro dal visibile all'invisibile, dal concreto alla sfumatura interiore. In questo senso la sceneggiatura è piuttosto ondivaga, distaccata, priva di quella leggerezza hollywoodiana ma anche della argutezza, talvolta artificiosa, del cinema europeo. Una pellicola semplice. Ed è la semplicità che contraddistingue la musica e l'artista country. Una semplicità non rigorosa, piena di sbavature, in bilico tra un successo trascorso e l'ubriachezza odierna, con quello sguardo disincantato rispetto alla commercializzazione discografica di un genere, una volta, il genere popolare e malinconico, povero e tradizionalista, oggi venduto brutalmente con i vinili diventati cd che riportano l'immagine sulle copertine glitterate di una novella "Britney del country". Il tono aspro, la sporcizia, la rudezza sono state sostituite dal mercato. Per questo, Bad Blake non ha un buon occhio per chi gli ha rubato il posto, il giovane Tommy Sweet, che interpreta senza riuscire a scrivere di sua mano un pezzo. La musica diventa un locus interiore in cui si esprimono le varie tappe evolutive del personaggio. Le interpretazioni si modificano, acquistando progressiva dolcezza e stabilità, man mano che cresce,dopo aver toccato il fondo, la consapevolezza di Blake. Jeff "Drugo" Bridges ha l'aspetto, l'atteggiamento, la vocalità ruvida e sottile di un cantante country. E "The weary kind", di Ryan Bingham, è uno dei brani country più toccanti di sempre. La qualità di Bridges, notevole, senza gigionate ed esagerazioni abnormi, restituendo un ritratto intenso e privo della pesantezza da Actor's studio, è affiancata dalla superba interpretazione di Maggie Gyllenhall. Il suo personaggio, sulla carta stereotipato, viene arricchito da sfumature inedite, piccoli gesti di una naturalezza disarmanti. Se c'è un grande Jeff Bridges, una parte del merito va ad una degna collega lavorativa come Maggie. Proprio il tono, basso e amorevole, ruvido e dolce, poco impostato, rende pienamente integrata la recitazione con il contesto da cui deriva. E la vicenda fa da sfondo rispetto alla mutevolezza di sè stessi. Cooper si avvicina ai suoi personaggi, cogliendone difetti ed emozioni, poi li lascia andare e in campo lunghissimo appaiono come particelle umane, mentre la dimensione ambientale, ben fotografata, nella sua maestosità, li ridimensiona, riconducendoli alla loro esistenza grama, semplice, quotidiana, frutto di un disegno che non è dato comprendere.


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