Nothing but the truth - Bruno

Nothing but the truth













Mai uscito nelle sale negli Stati Uniti (figuriamoci da noi), ha quella rabbia, quell'incitamento, un senso di sporcizia che il Frost/Nixon di Ron Howard aveva mutilato, edulcorando immagini più cinematografiche che reali (Nixon che, ubriaco, chiama al telefono Frost, il picco più riuscito del film). Kate Beckinsale rinasce con un'interpretazione scarna, mai glaciale, mai enfatica, comunicativa. La mimica facciale è in grado di trasmettere un sentimento che esplode nelle "viscere" del cervello e trapassa il cuore fino ad adagiarsi sulla pancia. Vera Farmiga ha la bellezza di una spia del cinema passato, ma ciò che colpisce di più è il suo volteggiare in preda ad eventi che non sa fronteggiare. La tenacia del suo personaggio è meno ancorata ad un'ideale, la sua forza indietreggia, esponendola ad un "fato" già scritto. Varie sono le anime del film: un piano strettamente politico rimanda agli scandali dell'amministrazione Bush, un piano strategico-militare si interseca, da sottofondo, alla pratica giornalistica a sua volta fiamma di un iter giudiziario, che rischia di compromettere una stabilità famigliare. Rachel Amstrong, reporter del Capital-Sun Times diretto da un'intensa Angela Basset, ha il coraggio di definire le proprie priorità, cercando, da brava giornalista, di ottemperare ad un mandato vocazionale che è nel proprio credo, quasi come se fosse una traccia del DNA. La sua lotta è contro i mulini a vento, nemici che non si vedono mai ("la Casa Bianca non commenta sulla pubblica sicurezza"), ed è una battaglia di civiltà, di ideale fatto persona, incorruttibile ed incrollabile. Nella perorazione finale, un grande Alan Alda sembra riproporrre indirettamente concetti filosofici di base, nella sua strenua accusa ad una legge, quella di coercizione del giornalista nel rivelare le sue fonti, che garantisce il mantenersi di un potere oligarchico in regime democratico. Dialoghi densi, scene crude, un realismo mai forzato poco mediato dall'elemento cinematografico, "Nothing but the truth" ha il merito di creare interrogativi profondi, abbracciando una causa, ma rivelandone con precisione gli esiti probabili.


Bruno













Delirio di Cohen, dopo Ali G e Borat. Costruito come una girandola di gag, decisamente di quart'ordine, è un mockumentary che prorompe, all'apparenza, nosense da ogni inquadratura. Accusato di volgarità insulsa, in realtà è uno specchio non pacificante sulla società attuale, da ogni punto di vista. Bruno è il reporter di moda austriaco più oltraggioso di sempre, gay dichiarato e completamente in balia della sua ansia da successo. E' una caricatura piuttosto becera, del tutto mancante di una moralità, a prima vista. In realtà, Cohen nasconde una traccia fantasma, un sottotesto riflessivo, non così ovvio. Satireggia il perbenismo borghese ed il miope puritanesimo (da una copertina del Laureato di Charles Webb), e definisce i caratteri di una società, straight o meno, che non è più morale di Bruno. Qual'è l'etica di un terrorista, che toglie vite, di un politico che usa epiteti offensivi, di una traccia di società che sperpera moneta nel nulla,come l'alta moda, di un addestramento militare che si trancia dietro gerarchie, tra nepotismo ed omologazione, di una fetta della popolazione di colore che induce al razzismo, dimentica della sua stessa storia? Bruno non è peggiore degli altri. D'altrocanto, il suo ego è narcisistico, oltrepassa continuamente la soglia del ragionevole per raggiungere una notorietà che non potrà mai avere. La reazione che consegue ad ogni sua azione, in considerazione del suo atteggiamento, è più che comprensibile. Cohen riannoda i due estremi, ponendoli sullo stesso piano. Su un piano tecnico, l'arma è la fruibilità immediata, su un piano contenutistico l'impronta è indiretta.

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