Tutti gli uomini del re

Tutti gli uomini del re
“Every man a king” recitava lo slogan della campagna “Share our wealth”. Storia vera, siamo nel terzo decennio del novecento, all’epoca della Grande Depressione. Louisiana, arida e grulla, bagnata e scossa come un albero secolare le cui fronde si muovono come se il mare di vento pieno le stesse, in tutta la sua grandezza, ad inondare. Terra del Sud, terra dei lunghi uragani e delle grande mescolanze etniche, sprazzi di folk e qualche nenia malinconica, in viaggio verso New Orleans. C’è un governatore, un tale, buon uomo e grande dittatore, Huey Long. La sua storia è scritta nel fango del passato, eppur non si dimentica, increspata negli anni e priva di retorica. Huey Long non è il protagonista di questo film, che ha un nome più facile, di portata, quasi simpatico per accrescerne l’umanità, Willie Stark. In realtà, Huey Long è un tipo alla Willie Stark, forse meno bravo a recitare, forse addirittura più convincente. Il populismo, in ambito politico, è un’arma a doppio taglio, che da una parte si usa con forza per addomesticare i pupilli ed i riottosi, levigata e prudente, dall’altra è la stessa lama che il pupillo o il riottoso estrae per pugnalare a morte il suo re. Willie Stark è un Cesare, un piccolo Cesare, il “padre” di quel figlio che poi sarà l’Augusto. Willie Stark è un piccolo Cesare, ma non ha la grazia e la leggiadria dei suoi modi, né un po’di vera arguzia politica. Se su Cesare l’onta della storia è stata piuttosto benevola, con affabili consensi, la storia moderna non ha molti riguardi nei confronti di Huey Long, soprattutto in un territorio apparentemente democratico come quello americano, ma, tuttavia, su cui il culto presidenziale ha un effetto, talvolta, troppo tenace. Il meccanismo di questo film del 1949 è chiaro: circumnavigare il contesto personale e quello politico. La funzione è chiaramente pedagogica e il cinismo dell’ottica registica è caro alla nostra era. Se vogliamo avere un’idea su cosa sia il populismo, possiamo avvicinarci al film con un fare, a dir la verità, meno promettente di quell’impressione di autenticità e passione che, normalmente, un film del passato regala a chi sa prenderne il minimo particolare. D’altronde, l’utilità del film è forte solo in relazione ad un assoluto distacco verso la politica. Di piccoli Cesari, anche arguti, anche simpatici, anche grigi e seri, anche sorridenti e incupiti, ne vediamo ovunque. E le storie, spesso, assomigliano al nostro Stark. L’uomo tende alla giustizia, ma, quando ha potere, dimentica il criterio di giustizia inteso come bene comune e tende ad un proprio ideale , di per sé già soggettivo, che diviene ancora più parziario ed elitario, identificandosi con un miglioramento continuo delle proprie finanze. Il percorso tra la prima fase, di speranze, di sconfitte, di prese in giro, di famiglia, di studio, viene sostituite da un capovolgimento del comportamento: libri neri, spionaggio, servilismo, minaccia, rifiuto delle regole, ricerca del sotterfugio, inammissibilità di un impeachment. L’agnello diventa lupo, eppur non ne è conscio pienamente e crede, fino alla fine, a sé stesso, ucciso da un nemico tramutatosi in pupillo apparente. Il film ha un notevole problema: il contrappasso che ne pregiudica la riuscita è l’inserimento del corollario di contorno. I personaggi agiscono solo sulla scena, buona parte del lavoro di comprensione dei loro comportamenti è sfumato, si pensi alla devozione da parte del giornalista Jack Burden o all’infatuazione di Anne Stanton. E, visto che in giro, è molto facile trovare novelli Willie Stark, sarebbe più edificante un ritratto opposto, meno reale
Giudizio numerico:6,5/10

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